Bruce Springsteen
Wrecking Ball
(Columbia, 2012)
Ciascun fan di Bruce Springsteen ha avuto il suo momento, definitivo o provvisorio, nel quale ha smesso di seguire il Boss. Quando ho iniziato ad appassionarmi alla sua musica molti seguaci della prima ora (gente che per intenderci si era spinta fino a Zurigo per vederlo, nella tappa più vicina del tour di The River) avevano abbandonato l’artista considerando un tradimento la svolta di Born in the USA. Altri hanno detto basta dopo il primo scioglimento della E Street della fine ottanta e le releases di Human Touch e Lucky Town, e via dicendo. Alla fine anche il mio momento di dire basta è arrivato, anche se è storia recentissima. Ha a che fare con le ultime pubblicazioni (Magic e Working on a dream), che suonano per la prima volta insincere e manieristiche, ed ha a che fare con l’intestardirsi a portare in giro quel che rimane della E Street Band, quasi fossero dei freak di fiera di paese: “gente venite a vedere il quadruplo mento di Little Steven!”. Ha a che fare con l’idea che mi ero fatto della vecchiaia di Bruce, lontana dagli stadi e dal clamore, a strimpellare folk. Ha infine a che vedere con la fortissima sensazione che l’uomo da sempre ammirato per la sua sincerità artistica avesse iniziato a fare il furbetto.
Questa disillusione è stata facilmente alimentata dall’ascolto di We take care of our own, preview del nuovo album Wrecking Ball, degna prosecuzione del sound tronfio e posticcio degli ultimissimi anni, ma, e qui sta il colpo di scena, è stata inaspettatamente messa alle corde dal resto dell’album, che si presenta, a tutti gli effetti, quale anello mancante del dopo Seeger Session.
Skippata la traccia uno (la già citata We take care of our own), si fa sul serio: Easy money e Shacked down riconciliano all’istante con l’arte di Bruce, nella loro ariosità filosofeggiano con il soul, con il gospel. Gli arrangiamenti sono finalmente coerenti, la voce di Springsteen potente senza artifizi. Persistono i fastidiosi la la la da stadio, ma almeno qui trovano un minimo di senso. Jack of all trades, a livello di interpretazione e testo è veramente un tuffo al cuore degno dei suoi illustri pronipoti discografici. Death of my hometown invece, dopo tanto trastullarsi con la musica irlandese composta da altri, rappresenta il raggiungimento del proprio celtico cumshot, un pezzo trascinante che potrebbene starsene bello comodo tra le composizioni più rispettose della tradizione dei Black 47.
Complessivamente sembra di sentire la roba più eterogenea di Ry Cooder, dalle parti di How can a poor man stand such times and live (non a caso coverizzata dal Boss nella rielaborazione delle canzoni di Pete Seeger), folk delle origini e soul che fanno un threesome col rock and roll. Nel contesto generale aiuta, e spero di non sembrare cinico, il non dover infilare a forza il solo di sax di Big Man, da tempo corpo estraneo al progetto musicale springsteeniano, che si sposa invece felicemente con un’ampia sezione di fiati e di coriste.
Benché abbastanza inquadrate nello stile classico del songwriting dell’autore di Born to run, non stonano nemmeno i lenti This depression e il midtempo folk You’ve got it, mentre accarezza delicatamente lo spirito il soul di Rocky ground (che infrange un altro tabù, quello del primo inserto rap in una canzone di Springsteen).
Nel caso qualcuno si fosse preoccupato lo tranquillizzo immediatamente, l'epica da stadio è presente anche in questo album, e trova la propria apoteosi in Wreckin ball (brano già donato all’ultimo Record Store Day), accattivante già nell'attacco, e nella versione in studio dell’ormai classicissimo Land of hope and dreams, che negli ultimi quindici anni di tour si porta via buona parte della conclusione dei concerti. Operazione doverosa, visto il ruolo che nel brano aveva Clarence Clemons, anche se personalmente non ho mai amato troppo questa canzone.
Il disco si chiude con un curioso country western tex mex tra Morricone e Ring of fire di Johnny Cash che gioca in maniera convincente sul contrasto musica spensierata / testo esistenziale.
Insomma Bruce stavolta è tornato sul serio. Senza inventarsi nulla di nuovo, di eclatante o di sconvolgente, ma riappropirandosi di un canone musicale tradizionale che gli appartiene nel profondo e mettendolo al servizio di testi, sinceri, amari e disincantati. In fin dei conti non è questo che da sempre pretendiamo da lui?
7 / 10
Questa disillusione è stata facilmente alimentata dall’ascolto di We take care of our own, preview del nuovo album Wrecking Ball, degna prosecuzione del sound tronfio e posticcio degli ultimissimi anni, ma, e qui sta il colpo di scena, è stata inaspettatamente messa alle corde dal resto dell’album, che si presenta, a tutti gli effetti, quale anello mancante del dopo Seeger Session.
Skippata la traccia uno (la già citata We take care of our own), si fa sul serio: Easy money e Shacked down riconciliano all’istante con l’arte di Bruce, nella loro ariosità filosofeggiano con il soul, con il gospel. Gli arrangiamenti sono finalmente coerenti, la voce di Springsteen potente senza artifizi. Persistono i fastidiosi la la la da stadio, ma almeno qui trovano un minimo di senso. Jack of all trades, a livello di interpretazione e testo è veramente un tuffo al cuore degno dei suoi illustri pronipoti discografici. Death of my hometown invece, dopo tanto trastullarsi con la musica irlandese composta da altri, rappresenta il raggiungimento del proprio celtico cumshot, un pezzo trascinante che potrebbene starsene bello comodo tra le composizioni più rispettose della tradizione dei Black 47.
Complessivamente sembra di sentire la roba più eterogenea di Ry Cooder, dalle parti di How can a poor man stand such times and live (non a caso coverizzata dal Boss nella rielaborazione delle canzoni di Pete Seeger), folk delle origini e soul che fanno un threesome col rock and roll. Nel contesto generale aiuta, e spero di non sembrare cinico, il non dover infilare a forza il solo di sax di Big Man, da tempo corpo estraneo al progetto musicale springsteeniano, che si sposa invece felicemente con un’ampia sezione di fiati e di coriste.
Benché abbastanza inquadrate nello stile classico del songwriting dell’autore di Born to run, non stonano nemmeno i lenti This depression e il midtempo folk You’ve got it, mentre accarezza delicatamente lo spirito il soul di Rocky ground (che infrange un altro tabù, quello del primo inserto rap in una canzone di Springsteen).
Nel caso qualcuno si fosse preoccupato lo tranquillizzo immediatamente, l'epica da stadio è presente anche in questo album, e trova la propria apoteosi in Wreckin ball (brano già donato all’ultimo Record Store Day), accattivante già nell'attacco, e nella versione in studio dell’ormai classicissimo Land of hope and dreams, che negli ultimi quindici anni di tour si porta via buona parte della conclusione dei concerti. Operazione doverosa, visto il ruolo che nel brano aveva Clarence Clemons, anche se personalmente non ho mai amato troppo questa canzone.
Il disco si chiude con un curioso country western tex mex tra Morricone e Ring of fire di Johnny Cash che gioca in maniera convincente sul contrasto musica spensierata / testo esistenziale.
Insomma Bruce stavolta è tornato sul serio. Senza inventarsi nulla di nuovo, di eclatante o di sconvolgente, ma riappropirandosi di un canone musicale tradizionale che gli appartiene nel profondo e mettendolo al servizio di testi, sinceri, amari e disincantati. In fin dei conti non è questo che da sempre pretendiamo da lui?
7 / 10
1 commento:
A me non è garbato granchè...de gustibus...
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