La migliore serie poliziesca mai trasmessa in televisione. Così è considerata da molti la saga (cinque stagioni, dal 2002 al 2008) di The Wire. Nonostante questo, dalle nostre parti il serial ha faticato a trovare una consona programmazione televisiva, e nella sua completezza, è stato trasmesso solo dalle tv a pagamento. Da fan dei polizieschi di qualità quale sono, seppur distratto nel tempo da altre produzioni americane, non mi sono mai dimenticato che prima o poi dovevo recuperare questa, e alla fine quel momento è giunto.
The Wire (inteso come "l'intercettazione") è ambientato a Baltimora, nel Maryland. La città, nonostante non sia esattamente la location più abusata dalle fiction poliziesche non si fa mancare nemmeno uno dei vizi delle metropoli americane più mediatiche. Droga, corruzione, malaffare, povertà, degrado e sopratutto omicidi (le statistiche reali indicano Baltimora come il luogo con più delitti in USA, dopo Detroit) regnano incontrastati in questa città attestata al di sotto dei settecentomila abitanti.
Protagonista della storia una squadra speciale di poliziotti assemblata pescando tra le diverse sezioni di polizia: scarti umani, detective di valore, gente che mena e raccomandati, tutti agli ordini del tenente Cedric Daniels (l'ormai noto Lance Reddick). Tra di loro spicca Jimmy McNalty (Dominic West, che come primo impatto non ha tanto il faccia del ruolo, così belloccio e da soap) uno, per descriverlo come fa un suo diretto superiore, talmente egocentrico e presuntuoso da essere "drogato di se stesso". Nel mirino una vasta organizzazione criminale dedita allo spaccio e collateralmente alla corruzione e all'omicidio, di base alle case popolari di Baltimora.
Pur cadendo in più di un luogo comune sugli sbirri americani, la serie si differenzia dalla media per un ottimo lavoro di scrittura, che la permea di realismo sopratutto per ciò che concerne gli aspetti "politici" della vicenda, mostrando la pochezza morale di giudici, politici e alti funzionari di polizia esclusivamente preoccupati della carriera e di ingraziarsi i propri ,superiori, che si affannano a cercare di evitare di pestare merde durante il percorso di ascesa, e pazienza se spesso questo porta su strade divergenti rispetto a quella del perseguire i reati.
Pur cadendo in più di un luogo comune sugli sbirri americani, la serie si differenzia dalla media per un ottimo lavoro di scrittura, che la permea di realismo sopratutto per ciò che concerne gli aspetti "politici" della vicenda, mostrando la pochezza morale di giudici, politici e alti funzionari di polizia esclusivamente preoccupati della carriera e di ingraziarsi i propri ,superiori, che si affannano a cercare di evitare di pestare merde durante il percorso di ascesa, e pazienza se spesso questo porta su strade divergenti rispetto a quella del perseguire i reati.
La serie parte molto lentamente, poi dal sesto episodio entra nel vivo e concilia qualità e tensione, sempre privilegiando il racconto e la parte strategica a all'azione. La bravura degli autori riesce a condensare in pochi fotogrammi le contraddizioni dei giovani soldati dell'impero della droga (ragazzini che in alcuni casi accudiscono altri bambini abbandonati dai genitori tossici); il razzismo e il sessismo presenti in polizia; la disperata solitudine degli sbirri (il divorziato McNalty che, ubriaco perso, cerca di montare nella sua nuova casa lettini Ikea per i figli). Straordinariamente ben assortite anche la gallerie di facce e personaggi che popolano la storia. Solo per citarne qualcuno, D'Angelo e Avon Barksdale (Larry Gillard jr e Wood Harris), Stringer (Idris Elba), Omar (Michael K. Williams), Kima Greggs (Sonja Sohn), tutti i ragazzini delle case popolari. Visi intensi a rappresentare ruoli spesso tormentati, quasi shakspeariani.
Dall'episodio sette poi un tuffo al cuore, comincia infatti ad apparire in brevi camei Steve Earle, che in quel periodo aveva appena sfornato Jerusalem, forse il suo lavoro più completo. Il singer del Tennesse ha la parte (che più autobiografica non si può) di un ex-tossicodipendente che dopo aver perso tutto si è ripulito e tiene discorsi nelle terapie di gruppo per drogati. Un'emozione vera vederlo al massimo della sua imponente fisicità, coi capelli lunghi, la barba scura e i tatuaggi sui bicipiti gonfi, raccontare di quella volta, quando ha venduto la chitarra per comprare la droga.
La conclusione della prima stagione è coerente con lo stile dell'opera. Non ci sono vinti e vincitori, ma solo un'enorme mediazione politica che lascia in pratica le cose come stanno. A perderci, non suonasse eccessivamente retorico, è ancora una volta la città, la comunità, la giustizia. E con esse i veri sconfitti sono, da una parte quelli che hanno tentato di scardinare il collegamenti tra crimine e politica, e dall'altra i più deboli, quelli dilaniati dai dubbi e dai rimorsi. Per loro sì, non c'è scampo.
P.S. Way down in the hole è il brano sui titoli di testa. Sappiamo che il pezzo è di Tom Waits e che avrà un'interprete differente per ciascuna delle cinque stagioni. Nella prima ad eseguirlo i Blind Boys of Alabama.
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