Dopo Townes (Van Zandt) e Guy (Clark) , Steve Earle giunge al terzo disco di di cover monografiche, celebrative di artisti importanti per la sua crescita di songwriter e di uomo. Stavolta purtroppo il soggetto a cui Steve "ruba" il repertorio è il figlio Justin Townes e la ragione dell'operazione la più tragica si possa immaginare, vale a dire la sua morte. Non torno sul tormentato rapporto padre figlio che ha caratterizzato la relazione tra i due (ne avevo scritto qui) e non oso dare interpretazioni psicoanalitiche sul senso di colpa di Earle Sr rispetto a questa tragedia, mi limito a prendere atto, oltre alle motivazioni emotive, di quelle sia pragmatiche (sostenere attraverso i proventi delle vendite del disco la vedova e la figlia di JT) che artistiche (una sincera ammirazione per il lavoro del figlio) che hanno portato Steve, in tempi rapidissimi, solo quattro mesi dalla dipartita, a dare alle stampe questo lavoro.
L'album è composto da undici tracce, dieci delle quali provenienti dal repertorio di Justin Townes e una originale, scritta per l'occasione. Delle dieci reinterpretazioni, ben quattro provengono da The good life, l'esordio full-lenght del 2008 di Earle Jr (si tratta di Lone Pine hill; Turn out my lights; Ain't glad I'm leaving; Far away in another town), mentre le rimanenti sei sono scelte singole da altri album, a partire dall'EP di debutto (Yuma, 2007) fino a The saint of lost causes, ultima opera pubblicata da JT.
Steve approccia il lavoro con lo stesso metodo dei precedenti album tributo, lascia cioè intatta la struttura delle singole canzoni (dopotutto, come nel caso di Van Zandt e di Clark, la tazza stilistica di tè è la medesima) "limitandosi" a farle diventare sue, attraverso arrangiamenti che le impreziosiscono e che sono affini al suo mood rurale degli ultimi quindici anni circa. Il perfetto esempio a questo approccio arriva già con la traccia d'apertura, laddove infatti I don't care era una perfetta hillbilly busker song, ci si trova per le mani un purissimo blugrass degli Appalachi, senza che il nuovo arrangiamento renda nemmeno per un istante irriconoscibile il pezzo originario. D'altro canto il materiale selezionato da Steve dal (numeroso) repertorio del figlio è tutto di ottima qualità e sposa, come due parti di una stessa mela, il lavoro paterno. Possiamo sostenere che, mentre Justin Townes aveva creato delle pietre grezze di cui si intuiva il valore, il padre le ha lavorate, sgrezzandole e facendo venire alla luce tutte le loro sfumature attraverso arrangiamenti più elaborati. Diventano così Earle's instant classics la ballata da drifter di Far away in another town, l'orgoglio operaio di They killed John Henry e l'hillbilly rock and roll di Champagne corolla.
The saint of lost causes, rispetto alla versione originale, sprofonda ulteriormente nella malinconia e nella disperazione e, ad ascoltarlo così, il testo sembra scritto su misura per Steve.
Chiude la forse un pò retorica ma comunque sincera , struggente e dolorosa Last words, esplicitamente dedicata al figlio e alla sua dipartita.
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