lunedì 16 novembre 2020

Justin Townes Earle, The saint of lost causes . Ricordando Justin Townes (1982/2020)


Milano, Rolling Stone, anno 1998. Steve Earle suona con i suoi Dukes nell'ambito del tour dell'album El corazon. Il concerto è coinvolgente, Steve che l'aveva iniziato (come d'abitudine) diffidente ed imbronciato, si è progressivamente sbloccato, dando vita ad una performance memorabile. Sui bis presenta uno speciale chitarrista aggiunto, suo figlio adolescente Justin Townes che, visibilmente felice, emozionato ed anche discretamente impacciato, si produce in un breve assolo. A vederli dal pubblico davano la percezione di un'idilliaca rappresentazione del rapporto recuperato tra un padre problematico (droga, arresti, violenze) e il proprio figlio. 

Quando ripenso a Justin Townes Earle, nonostante nel tempo sia riuscito a ritagliarsi un proprio importante spazio nella musica, è spesso questa l'immagine che mi torna in mente (col beneficio di un dubbio, non sono certo che l'episodio sia avvenuto nel tour di El corazon o invece in quello di Trascendental blues, tre anni dopo, visto che entrambi gli show si svolsero al compianto Rolling Stone ed è passato del tempo). A giudicare da come, nella sua carriera a venire, Justin Townes abbia continuamente tentato di elaborare "il lutto" dell'assenza paterna, si deve essere trattato di una delle poche eccezioni di gioia nel rapporto col genitore. Ma che JT fosse destinato ad una vita di talento e di sofferenze, per chi crede nel destino di un nome (nonchè nella genetica), era forse già scritto proprio nel nome che il padre scelse per lui, quel Townes (Van Zandt) suo maestro di arte e, purtroppo, di dipendenze (anche lui morto prematuramente a causa degli abusi da sostanze stupefacenti), oltre che dalle sue stesse abitudini , praticate almeno fino alla metà degli anni novanta.

L'adolescente felice che saltellava sul palco imbracciando la sua Fender, da lì a poco avrebbe lasciato il posto ad un uomo che non ha avuto paura di mostrare cicatrici e rancore attraverso la sua arte, anche in maniera esplicita, fino alla pubblicazione di due album "gemelli" usciti a pochi mesi di distanza tra il 2014 e il 2015, ed intitolati, quasi a voler dire: "non serve nemmeno che li ascoltiate, il messaggio è nel titolo": Single mothers e Absent fathers.

Devo essere onesto, a parte l'elemento curiosità di ascoltare la proposta del figlio di uno dei miei eroi musicali, non ho mai "coperto" la carriera musicale di JT, limitandomi a dedicargli giusto una recensione, in occasione dell'uscita del suo disco del 2012 (qui) più una playlist monografica l'anno successivo. Lo stile che si era ritagliato Earle jr, comprendente old time music, folk, ballate, country e blues (molto in analogia con l'ultima parte della carriera del padre), coniugato a liriche spesso malinconiche e suggestive, era certamente interessante e rientrava appieno nella mia tazza di tè, pur tuttavia senza riuscire, per quanto mi riguarda, a stagliarsi con personalità sulla folta concorrenza.

Non di meno, per ragioni che forse non sarei in grado di spiegare, la sua prematura morte mi ha colpito.

Questa recensione è quindi, in parte, solo una scusa per parlare di un (altro) artista che non è sopravvissuto ai suoi demoni, facendosi probabilmente (la causa di morte non è stata definita, anche se si sospetta un overdose) sopraffare da quello che assumeva per alleviare il dolore. 

Quando è stato trovato morto nella sua abitazione di Nashville, il 20 agosto scorso, Justin Townes aveva 38 anni. Un anno prima aveva rilasciato l'ottavo disco (in dodici anni) della sua produzione, a detta di molti recensori, il suo migliore. A riascoltarlo oggi è facile cadere nella trappola di individuare indizi che potessero condurre al suo "desiderio di morte", tuttavia, più verosimilmente, al netto di una copertina davvero premonitrice, l'album non è altro che la continuazione, in musica e versi, della sua arte, contraddistinta da una folta coltre di malinconia.

E' un personaggio da noir anni quaranta, il primo che emerge dalla title track, deputata all'apertura del disco, certamente uno dei pezzi più struggenti dell'intera tracklist, splendido nell'inquadrare un protagonista indurito e reso cinico dalla vita ("First you get bad/ Then you get mean / Then there's nothing else but grow cold / And prey the saint of lost causes"). Un personaggio insomma che avrebbe fatto un figurone su Darkness on the edge of town di Springsteen, ma anche su The hard way, del babbo. 

Il disco (che sfiora l'ora di durata) è ben assemblato dentro l'alternanza dei pezzi, assecondando un'amalgama che lo fa scorrere in maniera coerente. Se non mancano i brani introspettivi (oltre alla citata title track dico Morning in Memphis; Frightened by the sound; Over Alameda), JT non fa mancare nemmeno il divertimento, con due irresistibili tracce di revival rock che farebbero la felicità di Wayne Hancock (Flint City shake it e Pacific Northwestern blues); un vivace folk rurale su liriche ecologiste (Don't drink the water); un languido bluesettone (Appalachian night) e un punk-folk da perfetto busker (Ain't got no money). 

Un album insomma che ben rappresenta la summa stilistica di un artista. Difficile poi mantenere la giusta distanza critica ed evitare di cadere in meste riflessioni da senno del poi quando le ultime strofe che Justin Townes Earle ha lasciato al pubblico, in coda all'ultimo brano della tracklist del suo ultimo disco (Talking to myself) sono: "I just can't remeber when / All the drugs begin to fail me / Left me only with a lonely child to fend / Cause I tried to love and I failed / I've put my heart on a shelf / These are things I say only when I talk to myself / These are things I say only when I talk to myself". 

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