mercoledì 5 ottobre 2011

Outlaw tales, 1 di 4


Hank III
Ghost to a ghost (Megaforce Records - Hank 3 Records), 2011



Il momento che molti lettori del blog temevano è arrivato. Sì, perchè con Ghost to a ghost comincio ad inoltrarmi nel fitto delle quattro releases che il nipote di Hank Williams, nonchè mio prediletto outlaw country singer, ha dato alle stampe lo scorso cinque settembre. A chi dà per scontata (legittimamente, viste le mie recidive) una recensione a senso unico, un florilegio di consensi, suggerisco però di andare avanti a leggere, perchè stavolta le cose potrebbero non andare come preventivato.


Album numero 7 (di cui cinque nell'ultimo lustro) della discografia ufficiale di Shelton Hank Williams, questo lavoro è presentato in doppio ciddì. Essendo però due album stilisticamente e concettualmente agli antipodi uno dall'altro e avendo io maturato nei loro confronti valutazioni differenti, mi prendo la libertà di separane le recensioni.


Ghost to a ghost doveva essere un importante punto di (ri)partenza nella carriera dell'autore del Tennesse. Dopo l'agognato raggiungimento della data di scadenza del contratto con la Curb Records (firmato nel 96 a 24 anni e durato quindici anni) infatti sembrava potesero cadere tuti i vincoli artistici che la label imponeva al musicista e di conseguenza che la creatività di Hank potesse fluire copiosa. Queste perlomeno erano le aspettative, enfatizzate peraltro dalle dichiarazioni dello stesso Williams, dal suo entourage e dalle community di fans.


Quello che invece abbiamo di fronte è semplicemente un buon lavoro, che ha però un grosso e a questo punto paradossale limite: quello di risultare già sentito. Qualcuno potrebbe parlare di conferma di uno stile, altri di noiosa ripetitività, di certo c'è che il disco segue pedissequamente lo schema classico dei lavori di Hank sia nei generi presentati (sostanzialmente neotraditional country con qualche richiamo al southern) che nelle tematiche di riferimento (isolamento sociale, derive da alcolismo e tossicodipendenza, maschilismo esasperato, armi da fuoco e smargiassate). Non lo scopriamo oggi, questo è il DNA dell'artista. Il problema è che in passato i sopracitati elementi erano sostenuti da ottime, in qualche caso straordinarie composizioni, qui invece, e torniamo al succo del mio ragionamento, il sonwriting comincia a presentare delle crepe, l'autoreferenzialità si fa preoccupante.


Non c'è niente di sbagliato in pezzi come Gutter town, Day by day, Don't you wanna, Outlaw convention, non fosse che sembrano copie sbiadite di brani precedenti. Se in Dick in dixie, nell'epocale Straight to hell, o anche P.F.F. in Damn right rebel proud il turpiloquio era al servizio della storia, in Cunt of a bitch sembra un pò fine a se stesso, in una sorta di degenerazione, causata dall'abuso di crack, della vicenda cantata da Johnny Cash in Cocaine Blues. Anche coi lenti non ci siamo, sono lontani i brividi di Country Heroes, Not everybody likes us o Candidate for suicide: oggi The devil's movin' in e Time to die lasciano piuttosto indifferenti. Lo scat di Troopers Hollar con tanto di campionamento dei latrati dei cani è divertente ma nulla più. Se per molti ascolti il pezzo che più mi ha coinvolto è stato l'ospitata di Ray Lawrence jr, sconosciuto artista country a cui Hank ha vouto dare una chance di emergere ospitando nel disco due sue composizioni (all'interno di un'unica traccia, la numero cinque), dal tradizionalissimo ma prevedibile sound country folk, significa che l'empasse è seria.


Il pezzo che si staglia dalla media è probabilmente quello dà il titolo al disco, posto in conclusione del lavoro. Lì si torna a respirare l'aria della migliore ispirazione, magari anche per il cameo, sui secondi conclusivi, del maestro Tom Waits (per la verità nei crediti è segnalato anche Les Claypool ma io, boh, non lo sento).



In conclusione che dire, probabilmente alla macchina country della brigata Hank serve un tagliando, una sterzata, una sosta dal meccanico. C'è troppa gente che si è ridotta ad essere la copia di se stesso solo perchè è quello che il pubblico gli chiede. Spero non sia questa la strada che percorrerà uno che invece, fin qui, non ha mai temuto di scontrarsi brutalmente con il music buisness e i suoi sepolcri imbiancati. C'è da dire per fortuna che già a partire da Guttertown, la "seconda facciata" di questo doppio, le quotazioni del sudista debosciato tornano a salire. Ma, ahivoi, ci sarà tempo e modo per tornarci sopra.





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