Correva il 2006 e l'amico blogger, nonchè perpetua fonte di ispirazione, Jumbolo, mi segnalava un gruppo del Massachusetts chiamato Converge, in occasione della loro nuova uscita, No heroes. Era l'epoca in cui nelle grandi catene di elettronica ci si poteva ancora imbattere in dischi lontani dal mainstream e infatti fu proprio in una delle mie innumerevoli scorribande nel reparto musicale di Mediaworld che mi trovai tra le mani il cd e, anche per merito di un ottimo packaging ed un prezzo popolare, lo acquistai. Ma, ahimè, la mia cultura musicale in quei giorni non era ancora abbastanza ampia e matura per apprezzare adeguatamente il cataclisma sonoro proposto dai quattro di Salem e quindi il dischetto, dopo qualche tentativo, finì malinconicamente sul mio scaffale.
Non ho più ripreso la band neanche nelle uscite successive (da allora solo due, Axe to fall nel 2009 e All we love we leave behind, del 2012), ma nel frattempo è successo che ho cominciato ad entrare nel mood del metal più estremo, approcciandone la cultura con l'ausilio di testi letterari di riferimento e abbeverandomi ai pilastri del grind, del death e del black, fino ad abituarmi a recepire anche la roba più pesa e indigesta.
Tra le mie retrospettive ad un certo punto è arrivato anche il momento di approfondire il movimento metalcore, portmanteau (termine appena imparato che volevo subito sfoggiare) dei generi metal e hardcore. A questo scopo, come faccio abitualmente, ho cominciato a spulciare articoli, post e analisi del movimento, trovandomi di fronte quasi sempre alla medesima conclusione: i Converge, con il loro Jane Doe del 2001 hanno posto sostanzialmente i semi per tutto il metalcore a venire. Da lì a recuperare questa pietra miliare (magari ne parlerò, prima o poi) e dedicare il tempo che meritava al loro nuovo lavoro, ca va sans dire, il passo è stato fulmineo.
La band, dal 1999 consolidata attorno al nucleo composto dal singer Jacob Bannon e il chitarrista/produttore Kurt Ballou, membri fondatori, assieme al bassista Nate Newton e il batterista Ben Koller, arriva a questo The dusk in us con la consolidata autorevolezza di cui sopra, e reduce da grandi scappellamenti critici anche per il precedente All we love we leave behind, vecchio di cinque anni. Non sono più i portabandiera del metalcore, i Converge, questo sottogenere resta un'ingombrante cifra stilistica per il combo, ma la maturità conseguita dai quattro gli permette di entrare ed uscire con abilità da qualunque prefisso metal, che sia post ,sludge, hc, thrash e persino heavy.
I Converge peraltro sono anche fra le non tantissime band del genere di cui valga la pena leggere i testi. Infatti, se rabbia nichilista, pessimismo verso un mondo decadente e menate anti-sistema, tipiche dell'hardcore, restano un importante fil rouge nella letteratura convergiana, in questo ultimo capitolo della discografia fanno inaspettatamente breccia anche sentimenti purissimi, e lo fanno proprio nella traccia di apertura A single tear, dove Bannon scopre nella paternità motivi per guardare al mondo con occhi differenti e meno disfattisti (I knew I had to survive / When I held you for the first time).
L'assalto sonoro del disco non è mai fine a sè stesso, me lo ripeto auto congratulandomi per la pazienza che c'ho messo ad "aspettarlo", prima ancora che segnalarlo ai lettori del blog: l'album merita veramente svariati ascolti, meglio se in cuffia, per recepirne le innumerevoli sfumature, le ricercatezze, i fraseggi di chitarra (che a volte, senza perdere velocità, si fanno quasi prog),così come gli inquietanti rallentamenti (la title track), le influenze doom (l'incipit di una suntuosa Reptilian) o le sue deflagrazioni (tra tutte una I can tell you about pain, che, se fosse stata, passatemi il termine, più scolastica avrebbe potuto trovare posto dentro Far beyond driven dei Pantera).
Insomma, The the dusk in us ha l'enorme merito di imporci una bella pausa dalla bulimia musicale che ci attanaglia. E' un disco che non finisce mai e che pertanto è difficile lasciarsi alle spalle.
Per questa ragione, per il rigore del gruppo, per la coerenza con la quale i Converge coniugano indipendenza e crescita continua, non c'è modo, neanche volendo, di esimersi dal definirlo il migliore album (non solo) metal del 2017.
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