La folgorazione sulla via dei Bachi da Pietra è arrivata relativamente tardi, ma è stata sconquassante. Infatti, nonostante il gruppo (in realtà un duo, composto da Giovanni Succi a voce, chitarra, basso e Bruno Dorella alla batteria/percussioni) sia attivo dal 2005, solo con Quintale, la release del 2013, è entrato nel radar dei miei ascolti. Lo ha fatto però sfondando la porta principale: conquistandosi il podio dei migliori dischi dell'anno e diventando l'oggetto delle mie sfrenate raccomandazioni all'ascolto.
L'atteso ritorno dei Bachi è stato diluito in due fasi: l'uscita di Necroide (a settembre) è stata infatti anticipata di qualche mese dalla pubblicazione dell'EP Habemus Baco, composto da tre pezzi esclusi dal full lenght finale, probabilmente per poca assonanza con il mood del lavoro e per un approccio stilistico definito da qualcuno più commerciale rispetto alla storia della band. In effetti la title track dell'EP, che dal vivo potrebbe diventare un discreto anthem autocelebrativo e Tutta la vita sono quanto di più ascoltabile inciso finora dai BDP, viceversa Amiamo la guerra (trasposizione in musica dell'omonima poesia di Giovanni Papini) rientra di diritto nel solco artistico di Succi e Dorella.
Necroide già dal titolo rivolge inequivocabilmente la sua attenzione a tematiche macabre e oscure. Non una novità per il gruppo che sin dagli esordi si è occupato di argomenti di questa natura, a prescindere dal vestito sonoro usato per accompagnarli. Laddove eravamo infatti in presenza di un blues spettrale, minimale, oggi, in parte, le liriche vengono accompagnate anche da strappi e accelerazioni riconducibili al death metal. Al death quindi più che al black, nonostante quest'ultimo sia chiamato in causa dal pezzo di apertura Black metal il mio folk, che punta l'indice contro il campionario di brutale banalità delle band che praticavano questo genere nei primi anni novanta.
Chiariamo però subito che Necroide può essere considerato un album di metal estremo solo da un profano del genere, non solo per l'eterogeneità delle singole tracce, che spaziano su diversi spettri sonori tenendo come denominatore comune un hard rock di matrice blues, ma anche per la personalità autoctona che emerge nei pezzi che si rifanno a quelle sonorità più estreme.
Scorrendo la tracklist si passa infatti agevolmente da un pezzo come Fascite necroide, che per titolo e testo farebbe la felicità dei Carcass e per sonorità quella degli Obituary, a Slayer and the family stone, geniale e caustica digressione sulla scocciature di dover morire, ad Apocalinsect, per il quale Succi utilizza un effetto voce robotico nel solco della dance anni ottanta.
Questo scollegamento stilistico dei pezzi è, paradossalmente, il collante più forte che tiene insieme il tutto. Non è da chiunque comprendere nello stesso album una canzone come Feccia rozza, assalto sonoro eseguito utilizzando la tecnica vocale growl, e splendide ballate elettriche caratterizzate da una struggente nostalgia, come Virus del male, suggestiva rievocazione dei primi frastuoni giovanili articolati in una rock band. Eppure dentro Necroide tutto questo funziona ed è funzionale al progetto, e il gruppo si permette persino un eccellente pezzo doom come Cofani funebri.
Meno immediato del suo predecessore, Necroide ha avuto bisogno di più ascolti per imporsi alla mia attenzione, ma, col tempo, la sua ascesa è stata progressiva e inarrestabile, grazie al traino di una manciata di canzoni che, per profondità di songwriting ed intuizioni sonore, sarebbe delittuoso lasciare confinata agli appassionati della musica indipendente italiana.
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