Nell'affollato panorama death metal i californiani (di San Diego) Cattle Decapitation si sono ritagliati, nel tempo, uno spazio di grande credibilità. Attivi ormai da un quarto di secolo, ambientalisti e animalisti convinti e quindi con testi che rispecchiano queste sensibilità, concentrandosi sulle crudeltà degli esseri umani nei confronti sia del mondo animale che, più generale, dei propri simili (attraverso lo sfruttamento del pianeta, le guerre o i genocidi), in vent'anni di produzione discografica, i CD hanno rilasciato otto album, fra cui l'ultimo, del 2019, Death Atlas, oggetto della presente recensione.
Chi, magari anche il sottoscritto, apprezza le sonorità estreme ma teme un pò la monoliticità e l'ossessiva ripetitività del death, può approcciare con fiducia a questo disco, perchè i Cattle Decapitation riescono a mantenere viva l'attenzione dell'ascoltatore per tutti i cinquantacinque minuti dell'opera, in virtù di una tecnica invidiabile e di una capacità di variare mood da composizione a composizione, sia dal punto di vista della costruzione del pezzo che dall'approccio canoro.
Basterebbe già la prima doppietta (dopo il prologo Antophogenic:end trasmission) The geocide/Be still our bleeding hearts a mettere in tavola le poderose carte stilistiche del combo: dopo un attacco in pieno stile death, blast beat e growling a manetta, si passa infatti all'uso dello scream ed a un ritornello in falsetto. Il tutto senza mai perdere la velocità nell'esecuzione. Un lavoro incredibile a livello interpretativo da parte dello storico cantante Travis Ryan e dei suoi affiatati sodali.
Ad intervallare le composizioni, e quindi ad "alleggerire" ulteriormente l'ascolto, la tracklist prevede un paio di interludi parlati (in aggiunta al prologo) con sottofondo ambient (The great dying I e II) e parlato robotico che imbullona le derive black metal allo stile dei californiani.
Il commiato è affidato alla lunga, magniloquente title track, che muta pelle strada facendo, con passaggi dal death a suggestioni dark, accompagnate dall'uso baritonale della voce, qui in modalità Nick Cave, fino ad un finale in stile sinfonico, per la degna conclusione di un meraviglioso e forse inarrivabile compendio di metal estremo, che continua a crescere senza stancare anche dopo settimane di ascolti.
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