Nonostante per Little Steven valga la metafora di una vita da mediano, la sua produzione discografica non ha nulla da invidiare ai top player. Soul, rhythm and blues, classic rock, reggae, latin, imbullonati negli anni ottanta con un piglio da "protest song" caustico nei confronti degli USA e della loro politica imperialista. A chiudere quel decennio arriva, inaspettata, la svolta stilistica con Revolution, album votato ad un funk elettronico debitore di Prince, ricco di campionamenti (la strato di Steve, e in generale ogni traccia di strumento tradizionale, compare solo in un brano, Discipline) che è un manifesto politico devastante nei confronti del Sistema americano. Ogni singola traccia oltre a tirare altre badilate in faccia all'establishment USA, affronta temi quali l'alienazione, la deriva dell'informazione, la religione. Spiccano la title track, Where do we go from here, Leonard Peltier, Education, Liberation theology, ma data la particolare natura, il progetto va preso in blocco. Un lavoro che alle mie orecchie suona più convincente oggi che trent'anni fa. Di sicuro il disco che un certo Boss ha accarezzato (qua e là ci sono tracce del petting di Bruce con l'elettronica) ma non ha avuto il coraggio di fare.
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