lunedì 21 novembre 2022

Def Leppard, Diamond star halos


Se al pari del thrash metal, anche il glam/hair/melodic metal negli ottanta avesse avuto i suoi big four, penso che molto probabilmente la scelta sarebbe caduta su Bon Jovi, Motley Crue, Poison e Def Leppard. Queste quattro band infatti, senza voler nulla togliere alle altre che in qualche caso a livello qualitativo se la giocavano, ma in quanto a riscontri mainstream venivano nettamente distanziate, erano le punte di diamante del movimento. 
Su questa base di ragionamento, riflettevo come di quattro formazioni, tre, per ragioni diverse, si siano pressochè eclissate. I Bon Jovi degli ottanta non esistono più, persi in un crossover di generi (rock, folk, country) sempre anticipato dal prefisso pop. I Motley Crue hanno, di fatto, chiuso la propria storia discografica con l'apoteosi di Dr Feelgood, nel 1989 (il self titled del 1994 dal punto di vista tecnico potrebbe essere, paradossalmente, il loro miglior lavoro, ma esula dal glam, mentre The saint of Los Angeles del 2008 è un solo discreto, ultimo, colpo di coda). I Poison autentici, analogamente ai Crue, sono sostanzialmente fermi al 1993, con Native tongue.

Gli unici che non hanno mai smesso di produrre musica nuova sempre mantenendo più o meno dritta la barra del proprio stile di riferimento, pur prendendosi il loro tempo (cinque album in quasi un quarto di secolo) sono appunto i Def Leppard, che tornano con un disco nuovo a sette anni dal precedente self titled. L'impronta della band del singer Joe Elliott ha un suo stile inconfondibile, forgiato negli anni con il produttore "Mutt" Lange (periodo 1981/1987) e culminato con il masterpiece Hysteria. Quello che non sapevo, e che mi ha stupito, è che la collaborazione tra i DL e Lange si è conclusa definitivamente proprio nell'87, e nonostante ciò la band su quegli stilemi ha continuato a marciarci fino ad oggi, come dimostra l'attacco, molto convincente, di questo Diamond star halos

Take what you want, Kick e Fire it up, le prime tre tracce che sono anche i primi tre singoli, dimostrano come i Leppard siano ancora in grado di esprimere il proprio sound anche su pezzi nuovi (ovvio il richiamo al passato ma, proprio per il discorso che facevo in premessa sulle altre band, non è comunque esercizio banale): midtempoes tendenti al veloce, cori, ritornello, tutto riporta ai vecchi fasti. Rimarchevole anche la prima ballata, This guitar, che si avvale ai cori di Alison Krauss. C'è solo un problema, che si riverbererà per altri brani della restante tracklist (ad esempio su U rok me): l'effetto Bryan Adams. Lo stile espresso chiama in causa infatti l'artista canadese, probabilmente sempre a causa dell'imprinting a fattore comune di "Mutt", con Adams per il suo album di maggior successo - Waking up the neighbours - .

Il secondo problema per chi scrive è la lunghezza del disco e la contestuale, eccessiva presenza di filler. Quindici pezzi per sessantuno minuti che mi sono sembrate quattro interminabili ore. Qui non si tratta di sforbiciare qualcosa, ma proprio di eliminare mezzo, inutile disco che, e lo dico da nostalgico di quegli anni, per cinque sei canzoni potrebbe essere ottimo, ma che alla lunga diventa noioso ed estenuante, tra lenti fotocopia e pezzi senza mordente che guardano anche al pop-country.

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