Per essere un concerto riservato a pochi attempati metallari, l'esterno del Live Club di Trezzo regala un colpo d'occhio mica male: lunghe file davanti all'ingresso e bagarini che comprano biglietti (chiaro segnale di sold-out).
Dunque si difendono ancora bene i Saxon, il cui debutto di trentanove anni fa contribuiva alla nascita della mitologica New Wave of British Heavy Metal, e che da allora, tra alti e bassi, non ne hanno mai voluto sapere di mollare.
Ma andiamo per gradi. Entro giusto in tempo per assistere all'esibizione dei Raven, che hanno appena attaccato Destroy all monsters, tratto dal loro ultimo, dodicesimo album, ExtermiNation (2016).
Devo ammettere che per me è stata una grande opportunità vedere dal vivo questo trio di Newcaslte, da sempre a sgomitare nelle seconde linee del metal, con vendite inesistenti, ma sorretti dal grande affetto di un manipolo di fan e da una encomiabile resistenza. I due membri storici della band si presentano rigorosamente in nero, John Gallagher(basso e voce) con la sua bella pancia da birra e Mark Gallagher (chitarre) con la sua stazza che sfiora i due metri per, ipotizzo, almeno centocinquanta chili di peso. Non fossero sopra un palco potreste tranquillamente incontrarli in qualunque pub della provincia inglese davanti a qualche dozzina di pinte vuote. Ma on stage si trasformano, soprattutto il chitarrista sfida la sua massa e la forza di gravità con un'insospettabile agilità, non sta fermo un momento, salta, fa il funambolo, si rivolge in continuazione al pubblico, durante i solos si produce nelle classiche smorfie facciali che tanto andavano di moda una vita fa. Alla fine del set (sei pezzi), durante il quale sono stati acclamati a gran voce e sostenuti da pubblico (Hell patrol e On and on sugli scudi), Mark e John salutano stremati, ma, sembrerebbe, anche emozionati e soddisfatti. Gran bella gig in onore di un periodo irrimediabilmente morto e sepolto.
In perfetto orario sulla tabella di marcia, e di questo bisogna complimentarsi, oltre che con la professionalità delle band, anche con la perfetta organizzazione del Live Club, salgono sul palco gli FM, probabilmente il gruppo inglese più americano nella loro proposta AOR. Dovevano esserci gli Y & T in quella posizione del bill, ma un non specificato problema ha provocato, a pochi giorni dal concerto, il cambio tra i due gruppi. Niente di male, gran bel combo anche questi FM, non fosse che vederli dopo i brutti, sporchi e proletari Raven fa un pò specie, con il loro look elegante, lo stile AOR da radio americane anni ottanta, i suoni puliti e gli strumenti che suonano come su disco. Il cantante Steve Overland (una vaga somiglianza con Enrico Bertolino) è a suo agio e rilassato, prende tutte le note con una naturalezza impressionante e la band sciorina i suoi pezzi più noti (That girl, All or nothing, Tough it out), racchiudendoli, all'inizio e alla fine, da due soli pezzi dall'ultimo, eccellente, Atomic generation (Black magic e Killed by love).
Setlist da nove brani per oltre quarantacinque minuti, e adesso l'attesa per gli headliner si fa frenetica.
Mi guardo un pò in giro realizzando che questo è probabilmente il concerto con il più bizzarro miscuglio di tipologie di pubblico a cui abbia mai partecipato. Oltre a numerosi coetanei, che si distinguono da lontano per via della zazzera bianca o la crapa pelata, magari bilanciata da sontuosi basettoni, e che per l'occasione hanno ripescato dal fondo dei cassetti le loro t-shirt nere coi loghi delle più disparate bands, vedo anche numerosi giovani che, come ricorderà Biff, quando i Saxon hanno suonato nel 1980 per la prima volta a Milano non erano nemmeno nati, fino a personaggi fuori tempo massimo, come la coppia di settantenni davanti a me, a pochi metri dal palco, rimasta ferma ed impassibile per tutta la durata del concerto, ma senza cedere di un centimetro dalla posizione.
Alle 21:30 spaccate si spengono le luci e vengono diffuse le note di It's a long way to the top (if you wanna rock and roll) degli AC/DC, cantata a gran voce da un pubblico ormai carico a pallettoni, e poi ecco arrivare la band, con Biff Byford bardato nel suo ormai inconfondibile cappotto di tipo militare. Il pezzo che apre il concerto è Thunderbolt, deputato anche ad introdurre l'ultimo, omonimo, album.
Caduto l'ultimo drappo che nascondeva una porzione di palco, fa bella mostra di sè l'immancabile "muro di Marshall" marchiato con l'aquila stilizzata, simbolo degli inglesi.
Si capisce subito che Byford non avrà alcun problema a comandare le operazioni, con una mobilità non certo dinamica, ma del tutto rispettabile, accompagnata da qualche headbanging e, soprattutto, da una voce che non ha perso un grammo della sua potenza e versalità.
C'è spazio, com'è fisiologico che sia, per i pezzi più recenti (Sacrifice, Battering ram, Nosferatu, Sons of Odin, The secret of flight, Predator, con il bassista Nibbs Carter a fare il controcanto in growling che su disco era di Johan Hegg degli Amon Amarth), ma va da sè che sono le canzoni mitologiche a far tremare le fondamenta del locale: Strong arm of the law, Solid ball of rock, Power and the glory, 747 (Strangers in the night), Princess of the night, oltre alla nuova They played rock and roll, dedicata a Lemmy e ai Motorhead, suonata immediatamente prima di And the bands played on, che invece è l'autocelebrazione dei Saxon stessi.
Dal vivo la band suona bella potente, con un tiro superiore a quello che emerge dai dischi, lo storico batterista Nigel Glocker spazza via ogni dubbio sulla compatibilità tra la sua età (65 anni) e il ruolo di heavy metal drummer, pestando come un fabbro ferraio, potente e preciso, infilato dentro una batteria enorme, a due casse. E' lui l'unico componente che Biff ogni tanto cerca, ignorando invece del tutto i restanti soci (tra i quali il co-fondatore Paul Quinn, che invece dimostra tutti i 67 anni con una prestazione pulita ma molto poco empatica).
Su Byford che dire? A quasi sessantotto anni sembra aver trovato una seconda giovinezza, la mobilità, come dicevo, è limitata, ma il suo è un modo di stare sul palco che è diventato molto più magnetico, autorevole, quasi sciamanico, il gesto più abusato è quello di allargare le braccia, come per esercitare un controllo totale sul pubblico, oltre a chiamarlo in continuazione al botta e risposta, con un portamento che si è fatto aristocraticamente british. Resta il fatto che continui a non risparmiarsi, visto il timing del concerto, tendente alle due ore di esibizione.
Su Wheels of steel però anche il tradizionalista inglese si lascia prendere la mano dalla tecnologia, estraendo dalla tasca il proprio iphone per registrare un brevissimo video destinato al profilo Facebook della band.
Si chiude con Denim and leather, durante la quale i Saxon si fanno lanciare dalle prime file i classicissimi gilet di jeans con le toppe delle band (pare siano tornati di moda) e, una volta indossati, portano alla fine canzone e show.
E' fatta, il cerchio è chiuso. Sono stato introdotto alla musica metal nei primi ottanta con tre dischi, tutti rigorosamente registrati da amici e compagni di classe su cassetta: Shout at the devil dei Crue, Stay hungry dei Twisted Sister e The eagle has landed, primo live dei Saxon.
Se per i Twisted Sister pare non ci siano più speranze di vederli dal vivo, visto il recente ritiro dalle scene (anche se... mai dire mai nel rock business), dopo i Crue, anche coi Saxon ho pagato il mio debito di riconoscenza per un modo di fare rock che, a quattordici anni, mi ha regalato emozioni talmente indescrivibili da lasciare una scia indelebile per oltre tre decenni.
L'anno prossimo i Saxon saranno di nuovo in Italia per la celebrazione dei loro primi quarant'anni di carriera e non è una previsione azzardata ipotizzare per loro il medesimo bagno di folla e di affetto che gli ha tributato qualche sera fa il Live Club.