Ospito eccezionalmente una recensione non mia, ma dell'amica blogger ellepì, titolare, tra l'altro, de Le Sirene di Titano, blog di letteratura attualmente in pausa di riflessione.
L'eccezionalità è anche data dal soggetto, in considerazione del fatto che di norma lei non si occupi di serie tv.
Evidentemente Chernobyl (che, colpevolmente, non ho ancora visto) meritava l'approfondimento che trovate di seguito.
Solo una piccola nota a margine: la serie ha debuttato a maggio 2019, ma è arrivata in chiaro, grazie a La7, solo qualche settimana fa, in pieno lockdown.
Trasmettere questa serie in un
momento come l'attuale è stata probabilmente una scelta non facile, audace.
Alcune caratteristiche della vicenda del Covid 19 richiamano inevitabilmente le
conseguenze a breve termine che ebbe l'incidente sulla popolazione ucraina e
mondiale: l'inconsapevolezza del pericolo favorita da una comunicazione
omertosa, il panico che scaturisce sempre in situazioni di malattia di fronte a
qualcosa di sconosciuto e inarrestabile, il fatto che i cari sparivano nelle
corsie degli ospedali e non tornavano indietro. Altrettante sono le differenze:
il fatto che Chernobyl fu un terrificante errore di valutazione i cui segni
saranno portati dalla Terra e dalla popolazione per millenni (mentre la
speranza è di battere il Covid 19 con un vaccino molto molto prima) e il fatto
che l'incidente di fatto non sia veramente concluso, dato che il nocciolo della
centrale continua a bruciare ancora oggi e così per migliaia di anni, e il
famoso “sarcofago” che ora lo copre dovrebbe reggere per soli 100 anni, dopo di
che bisognerà provvedere nuovamente.
“Chernobyl” è probabilmente il
viaggio più realistico che possiamo fare in quella vicenda, anche per chi, come
me, era ragazzino in quei giorni e ha vissuto in famiglia gli effetti della
nube radioattiva che invase i cieli d'Europa, guardava i telegiornali ma era
troppo giovane e troppo lontano da Chernobyl, per capire qualcosa che neanche
gli adulti erano in grado di spiegarci, racconta senza retorica e consolazione
gli eventi e come coloro che furono esposti direttamente alle radiazioni (sia
subito dopo, durante le prime operazioni di soccorso, le indagini per
comprendere l'accaduto e i lavori per evitare una fusione totale del nocciolo)
non avessero alcuno scampo. Questo lo aveva ben presente Valery Legasov, il chimico che si batté
perché il pericolo fosse riconosciuto e affrontato dalle autorità e che
denunciò l'omertà degli apparati di potere (che minimizzavano anche in presenza
del capo di Stato, Gorbaciov) e l'inadeguatezza delle tecnologie nucleari
sovietiche. La consapevolezza della condanna accompagna lo spettatore mentre
segue gli operai della centrale, Legasov, il politico Boris Shcherbina, la
scienziata Ulana Khomyuk e tutti gli altri personaggi impegnati nello sforzo di
contenere le conseguenze dell'esplosione o che le subiscono, fantasmi in un
mondo che non si vuole credere vero, in cui la carne è divorata dall'esterno e
dall'interno e in cui non c'è una via di fuga, una salvezza.
“Abbiamo a che fare con qualcosa
che non è mai accaduto prima su questo pianeta” dice Legasov a Shcherbina, è
impossibile immaginare come si sentirono i politici, gli scienziati che erano
consapevoli di quello che era accaduto, mentre la popolazione si muoveva senza
riferimenti in una notte infinita. Tra loro vi era Lyudmilla Ignatenko, moglie
di uno dei pompieri che per primi arrivarono alla centrale dopo l'esplosione (e
tutt'ora in vita, nonostante tutto), seguì suo marito, trasportato in un
ospedale a Mosca fino alla fine, orribile, in uno strazio che resta tra i
ricordi indelebili di questa serie.
La realizzazione di questo
progetto deve essere stata indubbiamente molto complessa, sia per la vastità
dell'argomento, sia perché si tratta di un avvenimento realmente accaduto e,
nonostante l'Unione Sovietica non esista più, il rischio che la serie si
trasformasse in uno spot pro-democrazie occidentali o (peggio) in un colossal
epico all'americana, una specie di Jurassic Park con la centrale nucleare nei
panni del tirannosauro, era reale.
Gli autori hanno quindi scelto la
strada giusta adottando uno stile documentaristico e ispirandosi alle atmosfere
“Stalker”, prediligendo colori freddi e lunghe azioni senza dialogo, pur
mantenendo un ritmo narrativo comprensibile a un pubblico occidentale. Questo
equilibrio nella rappresentazione di una vicenda sovietica da parte di
sceneggiatori, registi e attori occidentali non è scontato, perché se da una
parte era necessario soddisfare il pubblico di HBO, altrettanto attraente era
la prospettiva di superare il dato narrativo e storico, cosa che in parte
avviene, soprattutto nella ricostruzione dei primi minuti successivi
all'esplosione, nelle carrellate sui paesaggi che conservano un'apparente, disturbante normalità. Solo
talvolta, impercettibilmente quasi, l'equilibrio si spezza, qualcosa non torna
in una situazione o in un tempo, un'inquadratura. Sono momenti, particolari, in
generale tutto tiene alla perfezione, grazie a un lavoro di regia, scrittura,
fotografia e montaggio fenomenali e alla bravura degli attori, tra cui i tre
protagonisti Jared Harris (Legasov), Stellan Skarsgard (Shcherbina) che tra
l'altro si candida come possibile interprete di
Boris Ieltsin in un futuro film, e la magnifica Emily Watson (Khomyuk).
I punti deboli della serie
vengono a galla nell'ultimo episodio, in cui si ricostruisce il processo che
consegnò tre colpevoli (pur colpevoli) alla storia assolvendo tuttavia lo Stato
Sovietico. Nella puntata che vuole essere la vera chiave di lettura
dell'accaduto, l'azione avrebbe potuto essere dilatata dando una lettura
soggettiva e globale (filosofica?) alla vicenda e alle sue conseguenze, ma viene compressa e si resta davvero un po'
delusi da una conclusione tutto sommato frettolosa. Gli eventi della notte del
26 aprile 1986, prima di quel momento solo frammenti quasi sconnessi, vengono
ordinati e -come in un telefilm poliziesco- finalmente collegati tra loro. Cosa
e perché è successo, chi siano i responsabili: il racconto di Legasov è una
sequenza costruita con un montaggio magnifico e la sua esposizione dei fatti ai
giudici un brillante esempio di come si possa rendere comprensibile un
argomento complicato all'interno di una narrazione. Ma quando Legasov arriva a
denunciare le mancanze del governo
Sovietico, forse il pragmatismo prende il sopravvento. Sarebbe stato quello, a
mio parere, il momento per osare e far partecipare completamente lo spettatore
al dramma di Legasov, consapevole delle conseguenze della sua denuncia
pubblica. Si è scelta invece una
conclusione abbastanza rapida, lasciando il discorso sulla Verità di Legasov
come un aforisma quasi retorico (e non lo era).
Nella conclusione, quasi a
completamento di questo finale, vengono raccontate con foto e didascalie le
sorti dei protagonisti e scopriamo che Ulana Khomyuk è in realtà un personaggio
creato per rappresentare tutti gli scienziati che lavorarono con Legasov e
cercarono la verità sull'esplosione del reattore di Chernobyl. Saperlo a
posteriori è un'ulteriore delusione, perché se fosse stato esplicitato, il
personaggio avrebbe potuto assumere a pieno titolo la funzione di Coro Greco.
“Chernobyl” è comunque un
capolavoro e un successo per chi l'ha creata , riuscendo a imporre temi,
personaggi e ritmi decisamente non consueti nella televisione contemporanea,
con una produzione capace davvero di suscitare forti sentimenti nel pubblico.
LP