Prima di iniziare a scrivere questa recensione sono andato a controllare la discografia dei Green Day perchè, onestamente, non ricordavo quale fosse l'ultimo disco della band che avessi ascoltato.
Ebbene, al netto di un ascolto distratto del trittico Uno, Dos, Tre, ero fermo al 2009 con 21Century breakdown. E, convinto che i Green Day avessero già dato il loro meglio, avrei continuato ad ignorare Billy Armstrong e soci, non fosse stato per la recensione di Father of all motherfuckers dell'amico blogger Ale/Jumbolo che ha avuto la capacità di incuriosirmi.
Grazie a lui quindi, che mi ha fatto accendere un riflettore su questo album, che, lo dico in premessa, ho trovato sorprendente e divertentissimo.
I Green Day infatti, dopo oltre tre decenni di attività riescono in un'operazione che rinfresca il loro sound come un'inaspettata secchiata d'acqua gelata, abbandonando il loro pop punk per buttarsi in una eccitante rivisitazione di un sound che definirei figlio di un certo tipo di musica americana anni 60/70, imbastardita dal rhythm and blues come dal pop nero mainstream e dal garage rock.
Dimenticate quindi la stentorea ed inconfondibile attitudine al canto di Armstrong, che rendeva immediatamente riconoscibile qualunque pezzo dei Green Day, e tuffatevi in una tracklist composta da dieci pezzi (per meno di mezz'ora di durata), carichi di attitudine e farciti di urletti, battimano, voci in falsetto e ritmo, al punto che ad un primo ascolto l'opera sembra partorita dalla mente di Dan Auerbach, tanto il patchwork musicale conduce ai Black Keys post El camino.
Un grande dimostrazione di coraggio quindi, da parte della band, che cancella il proprio brand stilistico per buttarsi, e gettare l'ascoltatore, in un turbinio di musica che sfido chiunque ascolti l'album al buio a ricondurre ai Green Day.
Dieci tracce, dicevamo, aperte dalla title track, che ricevono un'incredibile forza propulsiva da pezzi come Fire, ready, aim, da Oh yeah, che inizia come un pezzo delle Ronettes, o da I was a teenage teenager che celebra senza formalismi i Ramones o ancora dallo sfrenato rock and roll Stab you in the heart.
I richiami ad una certa stagione radiofonica americana sono ricorrenti anche in alcuni riferimenti dei testi, come quel Meet me on the roof, che potreste trovare in molte canzoni dei sessanta, o la classica invocazione soul "can I get a witness" , immancabile nelle esibizioni degli artisti soul (qui richiamata in Take the money and crawl).
E il timbro classico Green Day? E' diluito in qualche canzone, come vaniglia nel caffè freddo: un approccio al ritornello, un break di batteria, qualche riff, mentre emerge più forte in un paio di pezzi più classici, non a caso inseriti in coda alla tracklist (Junkies on a high e Graffitia).
Insomma, Father of all motherfuckers è un disco festoso ed audace, non mi sovvengono molti altri gruppi di primo piano che, dopo aver creato in trent'anni di successi e riconoscibilità un marchio sonoro immediatamente identificabile, invece di persistere con l'ispirazione in riserva sparata (qualcuno ha detto Pearl Jam?) abbiano archiviato orgoglio e confort zone per cambiare ogni cosa .
Che si tratti di un episodio, per tornare poi alle origini, o un cambiamento più strutturale, nulla potrà minare una rinnovata credibilità che i Green Day, almeno per il sottoscritto, hanno riconquistato in ventisette minuti di musica.
Grandi.
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