Torno al recente format "un regista per due film".
Dopo S.C. Zahler passo ad un altro giovane e molto interessante film director.
Jeremy Saulnier (Virginia, 1976), che di certo abbraccia un campo di interessi non paragonabile a quelli di Zahler, ma che dietro alla macchina da presa e davanti ad foglio bianco dimostra indiscusso talento.
I suoi due film che ho visto in sequenza sono Blue ruin, del 2013 e Green room di due anni successivo, entrambi disponibili sulla piattaforma Amazon Prime.
Dopo il film a low budget Murder party, molto ben accolto dalla critica ma quasi totalmente ignorato dal pubblico, Saulnier è praticamente rassegnato a dover abdicare da ogni aspirazione di carriera nel cinema. Fortunatamente gli amici e i colleghi lo spronano a non desistere, e in particolar modo l'attore Macon Blair lo incoraggia, non solo dal punto di vista morale ma anche da quello economico ad investire in nuovo film, colpito dall'intensità di una sceneggiatura che il regista gli ha fatto leggere. Nasce così Blue ruin, altro progetto a basso costo, in buona parte finanziato dallo stesso Saulnier e da Macon, al quale viene affidato il ruolo da protagonista.
Assistiamo alla vicenda di Dwight (Macon Blair), talmente sconvolto dall'omicidio dei suoi genitori da essersi ridotto a vivere alla giornata e ad usare come casa la sua vecchissima auto.
Il punto di svolta per la vita di Dwight (e per il film) è la notizia che l'assassino dei genitori sta per essere scarcerato. Questo dona finalmente a Dwight uno scopo, quello di rintracciarlo e ucciderlo, per fare giustizia e trovare una sua serenità.
Ma se vi aspettate un revenge movie ottuso e fascista siete fuori strada, perchè questo è davvero solo lo spunto iniziale della pellicola (non credo di spoilerare troppo se rivelo che il confronto tra il protagonista e la sua vittima si conclude già nei primi venti minuti di narrazione) che presto si apre ad altri, tragici scenari.
Blue ruin è un'opera che non fa mai pesare allo spettatore la propria limitatezza di mezzi. Saulnier ci mostra la faccia di un'America che gli appassionati di crime conoscono, ma che, per ovvie ragioni, non è quella più nota. Un'America di provincia povera, individualista, violenta e border line, nella quale ognuno rivendica e pratica il proprio diritto ad avere in casa non solo un'arma, ma un vero un arsenale, quasi aspettando con impazienza la possibilità di usarlo, magari per un banale sconfinamento di confine (tema questo che tornerà, forte, nel successivo Green room) in modo da non dover rischiare praticamente nulla con la legge, neanche fossimo ancora nelle terre di confine dell'800 tanto celebrate dalla filmografia western.
Il film ha un passo lento, che segue i tempi del disadattato protagonista, con improvvisi scoppi di violenza, tanto efficaci quanto imprevedibili, rispetto al mood della storia.
I personaggi sono tutti estremamente credibili, così come l'esito dell'odissea di Dwight. Personalmente non ho visto analogie con Hitckock o i Cohen, come altri (ben più titolati di me) hanno fatto, piuttosto, anche qui, nella messa in scena, nei paesaggi, nella sporcizia delle immagini e nella storia, con certo cinema dei settanta che poteva permettersi tempi e modi oggi totalmente indigesti per la gran massa del pubblico moderno.
Nel 2015 Saulnier scrive e dirige Green room, la storia degli Ain't Rights, una band hardcore punk che si arrabatta in giro per l'Oregon su un furgone scassato per pochi dollari di compenso, in locali di infima categoria, senza riuscire mai ad andare nemmeno in pari, al punto che è sul punto di sciogliersi.
Per riparare all'annullamento di una data prevista, un loro conoscente gli organizza un concerto in un locale sperduto nei boschi di Portland, ritrovo abituale di skinhead, neo-nazisti e suprematisti bianchi. La band è ovviamente perplessa, ma la prospettiva di un buon cachet e la presenza in cartellone di un gruppo noto (i Cowcatcher) li convince a mettersi in viaggio.
Gli Ain't Rights suonano il loro set, vengono regolarmente pagati, ma quando tornano in camerino per recuperare le proprie cose assistono a qualcosa che gli impedirà di lasciare il posto, mettendo a rischio la vita di ognuno dei componenti del gruppo, barricato nel camerino.
Fosse anche un film brutto, questo Green room, basterebbe la scena nella quale gli Ain't Rights decidono di suonare in faccia a decine di nazistoidi Nazi punks fuck off dei Dead Kennedys, per fargli guadagnare pieno rispetto. Così come, per ogni appassionato di musica, la scena dove viene proposto il consueto gioco sull'unica band da portare sull'ipotetica isola deserta, il cui nome cambia radicalmente in condizioni normali piuttosto che in punto di morte. Ma siccome un film in cui si suona in faccia alla feccia nazista quella canzone dei Dead Kennedys non può in alcun modo essere un brutto film, ecco che quelle sequenze rappresentano solo l'antipasto di un'opera tesa, violenta e angosciante.
Rispetto a Blue ruin, questo lavoro di Saulnier viaggia veloce su un ottovolante adrenalico e con una tensione che non ti molla mai.Qualcuno, dovendo dargli un genere, lo definisce un horror, a me sembra, nonostante, certo, il sangue scorra a fiumi, di essere dalle parti del film d'assedio, Carpenter docet, anche per i riflessi sociali e politici radicati nella rappresentazione.
L'attore feticcio (nonchè amico del cuore) Macon Blair interpreta qui un ruolo secondario, ma importante, quello del gestore del locale con un ruolo incerto nell'organizzazione di suprematisti agli ordini di un misurato ma forse proprio per questo terrificante Patrick Stewart, nei panni di Darcy Banker.
Il ruolo di Darcy è centrale nel film. Infatti nonostante tutto l'odio che possiamo provare per questa gente con le svastiche tatuate sul corpo, dal film risulta evidente come molti di loro siano ragazzi persi, catturati nella rete di un pericoloso affabulatore che ha dato loro una causa e un gruppo nel quale riconoscersi. Bene anche i protagonisti principali Anton Yelchin (nei panni del chitarrista Pat) e Imogen Poots (Amber). Insomma, un ottimo film, meno autoriale ma più divertente di Blue ruin con il quale però condivide sguardo lucido, critico e spietato sulla provincia americana.
Su Netflix è disponibile l'ultimo film del regista, Hold the dark. Conto di recuperarlo.