Tra le tante formazioni che si rifanno al classic metal, gli svedesi Avatarium sono forse tra quelle che sono riuscite maggiormente ad imporre un sound riconoscibilissimo e sufficientemente personale. La band, che nasce su impulso del bassista Leif Edling, ex Candlemass, che rimarrà negli Avatarium lo spazio dell'album di debutto, pur mantenendo l'impronta stilistica doom, anche grazie all'inconfondibile contributo della singer Jennie-Ann Smith è riuscita a muovere su territori meno rigidi del genere coniato dai Black Sabbath (sempre presenti comunque, nei fraseggi di chitarra di Marcus Jidell).
The fire I long for (titolo poetico e suggestivo) è il quarto frutto in sei anni del combo, che non cade troppo lontano dal robusto albero del mood che ha contraddistinto i precedenti lavori (soprattutto Hurricanes and halos, del 2017), una costante tensione drammatica, testi molto evocativi, viaggi anche lisergici cuciti tra le chitarre di Jidell e le tastiere di Rickard Nillson.
Mancano forse i pezzi più lunghi e blues oriented del disco precedente (mi sovvengono Medusa, The sky at the bottom of the sea; When breath turns to air), "compensati" da una maggiore fruibilità dei pezzi, alcuni dotati di potenziale mainstream, come Rubicon; Lay me down; Shake that demon, mentre la title track è forse il brano dotato di maggiore pathos e componente onirica.
Un buon album, che ha forse il limite di non aggiungere molto alla carriera del gruppo, non gli fa compiere un salto commerciale ne è coraggioso a sufficienza per stravolgere quanto fatto finora. Tuttavia, come scritto in premessa, la band ha un suo stile definito ed immediato.
E di questi tempi non è davvero poco.
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