giovedì 28 gennaio 2021

I miei film del 2020

Tra i tanti danni creati a molti settori produttivi ed economici del Paese dal Covid, quello subito dalle sale cinematografiche è duplice: oltre all'aspetto più immediato, i mancati incassi derivanti dalla chiusura, è sopraggiunta l'accelerazione di un processo purtroppo già in atto da tempo, quello cioè della trasformazione culturale che sta portando masse di persone a scegliere l'intrattenimento domestico in streaming rispetto alla frequentazione dei cinema. Nuova abitudine questa che aborro al pari della prospettiva di un governo Salvini-Meloni ma che, analogamente al parallelismo politico, sono rassegnato a subire. Ad occhio e croce nel 2020 le sale sono rimaste aperte meno di un semestre, tra inizio anno e slot tra la prima e la seconda ondata del virus. 
Per inciso, durante la parentesi estiva, sono stati davvero pochi i titoli distribuiti, per una (legittima?) preoccupazione dei produttori di "bruciarli" distribuendoli in sale semideserte. Diciamo Tenet e poi il nulla. Molti film sono stati distribuiti direttamente sulle piattaforme, altri, sebbene pronti, provano a resistere all'opzione streaming restando nel limbo in attesa di tempi migliori (blockbusters annunciati come No time to die, l'ultimo 007 con Craig, ma anche i nostrani Diabolik dei Manetti, Freaks out di Mainetti e Supereroi di Genovese). In tutto ciò, è vero, grazie alla distribuzione in streaming sono riuscito a vedere un numero di nuove uscite, una quarantina, superiore alla mia normale media. Va da sè che baratterei senza pensarci metà di questi titoli per un pronto ritorno all'insostituibile esperienza collettiva della sala. 

Nell'indicare ciò che mi è piaciuto di più premetto che potrebbe esserci qualche titolo uscito nella coda del 2019 e che, anche tra i miei preferiti, non ci sono film epocali, piuttosto ottime pellicole che rispondono ai titoli di : Dragged across concrete; Judy; Mank e The lighthouse

Per quanto mi riguarda solo un film si è stagliato sugli altri, raggiungendo livelli di magnificenza, si tratta di Diamanti grezzi, un ormai insperato ritorno delle grandi produzioni USA al noir più puro e spietato, con un Adam Sandler inedito e di straripante bravura.



lunedì 25 gennaio 2021

Bruce Springsteen, Letter to you (2020)



Dopo essersi fatto attendere cinque anni per dare un seguito ad High hopes (2014) Springsteen rilascia due album in due anni. Accantonato lo stile bombastico (da me molto apprezzato) di Western stars, si torna dunque a casa, vale a dire con la E Street Band, vale a dire nella confort zone propria e dei fan. 
Grande entusiasmo ha generato questo ritorno al rock classico del settantunenne (eh sì...) artista americano, soprattutto, m'è parso di notare, dai vari addetti ai lavori che il disco l'hanno ascoltato e recensito in anteprima, raccontandone un semi-capolavoro. Il mio approccio all'album è stato invece molto più freddo, i primi ascolti mi hanno lasciato tutto sommato indifferente, a chiedermi cosa non stessi capendo, rispetto all'entusiasmo che le tracce stavano universalmente generando. 

Le dodici canzoni che compongono la tracklist sono, come da tradizione, tutte composte da Springsteen, l'apporto della E Street Band è attinente, credo, al solo arrangiamento (a tal proposito, Bruce, non sarebbe arrivato il momento di co-intitolare un album di studio alla banda? Quel "featuring" the E Street Band che compare solo sull'adesivo appiccicato sulla copertina, dopo quasi cinquant'anni di sodalizio, è francamente ingeneroso), anche se il marchio di quel sound ruffiano, temprato da milioni di ore passate a suonare assieme, è inconfondibile. E lo è non per le chitarre di Lofgren / Van Zandt, il basso di Tallent o il sax di Clemons (Jake), ma per le tastiere di Roy Bittan e la batteria di Max Weinberg, elementi oggi più che mai imprescindibili a garantire l'autenticazione del "made in E Street". 

Sorvoliamo sulla copertina, ormai mi sono stancato di criticare l'amatorialità con la quale vengono scelte, e concentriamoci sul disco, la cui apertura è deputata all'unico brano acustico della tracklist, l'innocuo One minute you're here, piazzato scaltramente in premessa, in modo da far deflagrare con più efficacia il mid-tempo rock della title track, indubbiamente uno dei pezzi inediti più riusciti del disco. Come suona lo Springsteen rock degli anni venti? Più che richiamare il sound dei vari Magic, Wrecking ball, Working on a dream o High hopes, l'uso quasi honky tonk delle chitarre mi rimanda piuttosto alla produzione dei primi novanta, a pezzi come Lucky town (dal sottovalutato disco omonimo). Sensazione confermata da una manciata di canzoni che considero poco più che filler e che ogni volta fatico a non skippare (spesso mi evito la fatica), e mi riferisco a Rainmaker, The power of prayer o Last man standing, nelle quali a prevalere è un malcelato mestiere. 

E veniamo al punto: se l'album si regge sulle proprie gambe è per il recupero di tre outtakes, amatissime dai fans, ma fin qui mai ufficialmente pubblicate da Bruce (nemmeno nell'imprescindibile cofanetto Tracks): Janey needs a shooter; If I was the priest e Songs to orphans. Tre canzoni meravigliose, in particolare If I was the priest, (che faceva parte del lotto di pezzi presentato alla prima mitologica audizione di Springsteen alla Columbia Records davanti a John Hammond) e Songs to orphans, un viaggio emozionale nel modo di scrivere di un giovanissimo artista che catturava ogni elemento, personaggio, vibrazione, buona o cattiva, proveniente dalla strada riportandolo nei suoi testi, come abbiamo imparato ad apprezzare nei suoi primi due album del 1973, Greetings from Asbury Park e The wild, the innocent, the E street shuffle e, in parte, con Born to run. Dentro l'esecuzione aggiornata di questi tre brani sì che emerge quello che può fare ancora oggi la E Street con uno spartito emozionale. Il timing smette di avere significato, si va oltre i sei minuti, si sfiorano i sette, eppure ne vorresti ancora e ancora, di questo Springsteen qui, che spazza via facile qualche altra composizione decorosa, come il mantra di House of a thousand guitars o lo stadium rock di Ghosts.

Cosa sarebbe stato Letter to you senza l'intuizione di questi tre recuperi, mi sembra scontato, il "solito" disco manieristico di un artista che deve rischiare (Western stars, The Seeger sessions), uscendo dal proprio perimetro di sicurezza per riuscire ad emozionare, perchè la sua ricetta ha già detto tutto quello che di grandioso poteva dire. Sarebbe tuttavia ingeneroso non sottolineare l'impatto anche politico che la personalità di Bruce riverbera ad ogni release. La campagna promozionale del disco, uscito il 23 ottobre, a pochi giorni dalle presidenziali americane (tempismo non casuale), ha permesso all'artista di dire in maniera forte ed inequivocabile cosa ne pensasse di Trump, nella certezza che i suoi giorni da presidente fossero finiti. E vedere, il 20 gennaio, Bruce, davanti ad una Capitol Hill deserta ma pacificata, imbracciare in solitaria la sua chitarra ed intonare Land of hope and dreams per l'elezione di Biden, beh, ti permette di ricordare perchè ami questo artista da quasi quarant'anni a prescindere da quello che, con autocitazionismo e sporadici lampi di ispirazione, riesce ancora a fare. 



giovedì 21 gennaio 2021

La belle époque (2019)


Victor, ultrasessantenne ex-disegnatore professionista, si trova oggi in uno stato di disillusione e depressione, non riconoscendosi nella società moderna, nei suoi cambiamenti tecnologi, civili e politici. La moglie Marianne, di professione psicologa, al contrario, è moderna, entusiasta e ancora affamata di vita, al punto dal non sopportare più l'indolenza del marito. Durante una cena tra amici, presente il figlio della coppia, viene raccontata di una nuova iniziativa imprenditoriale che offre la possibilità di vedere ricostruita nei minimi dettagli l'epoca storica che si desidera vivere (o rivivere), così da poter esserne parte, sebbene per brevi momenti. Grazie ad un'intuizione del figlio e all'amico imprenditore autore dell'iniziativa (che ha un debito di riconoscenza nei confronti di Victor), al vecchio arnese del novecento verrà offerta l'occasione di rivivere il momento più felice della sua vita: il primo incontro con Marianne.

In uno dei campi da gioco in cui il cinema italiano si è tristemente impaludato negli ultimi lustri, quello cioè del tema: crisi generazionale degli "...enni" (a seconda del periodo in cui è girato il film trentenni, quarantenni, cinquantenni e oltre), la Francia, ancora una volta (il caso più recente è stato Cena tra amici) ci rimanda dietro i banchi di scuola per una lezione sull'argomento. Ci insegna come, da uno spunto nostalgico, si giri un film con lucidità, leggerezza, ironia ed emozione. In questo, il cast, guidato dall'eccezionale Daniel Auteuil (Victor), realizza in modo esemplare l'idea del regista e sceneggiatore Nicolas Bedos.
Fanny Ardant (la moglie Marianne), eccentrica e adrenalinica, nonostante le sue settanta primavere mette voglia di spaccare il  mondo, i più giovani Guillaume Canet (l'imprenditore Antoine) e Doria Tillier (l'attrice che "interpreta" Marianne da giovane) sono deliziosamente in parte. E, anche se è del tutto evidente il tifo che la mia generazione fa istintivamente per l'amareggiato Victor ("almeno negli anni settanta avevamo delle certezze: la sinistra era la sinistra e la destra era la destra"), la sceneggiatura mette in scena il suo contraltare perfetto, la coetanea moglie Marianne, che non si arrende, e combatte quotidianamente contro il declino intellettuale e la retromania ("non mi mancano quei giorni, non eravamo poi così liberi. Gli stupratori restavano impuniti, abortire era complicatissimo. E poi mi sembrava di vivere in un enorme posacenere").

Un inaspettato, divertente, intelligente, emozionante, piccolo grande film.

lunedì 18 gennaio 2021

Commenti sonori che questo nefasto 2020 mi lascia in eredità (the post formely know as "i migliori album dell'anno")

Solita premessa sull'irrilevanza statistica del post: questi sono i dischi che mi sono piaciuti nel corso del 2020, ma, come sempre, ho ascoltato poche release nuove, pertanto se qualche utente della rete fosse stato indirizzato qui (evento alquanto improbabile) avendo inserito nel motore di ricerca la stringa "migliori album del 2020" può tranquillamente chiudere la pagina e rivolgere la sua attenzione ad altri risultati, sicuramente più attendibili, della sua ricerca. Mettiamola così: se, in quelle sempre più rare finestre di tempo nelle quali, magari con un Toscano tra le dita e un bicchiere di Irish Mist nella mano, qualcuno mi chiedesse quale musica mi porterò oltre questo disgraziato ventiventi, in premessa risponderei che la mia short list (nella quale, preciso, tutti i titoli sono ad ex aequo) trova sicuramente posto il più importante cantautore vivente, quello che, assieme ai Beatles e ad Elvis, ha cambiato il corso dell'arte (e non solo), e che nel 2020 ci ha regalato un lavoro straordinario, forse ormai insperato. Mi riferisco ovviamente a Bob Dylan, e al suo Rough and rowdy ways (uscito il 19 giugno): disco che reclama dall'ascoltatore attenzione, tempo e pazienza ma che, per liriche e musiche, ammalia e commuove come una vecchia foto consunta rinvenuta dentro un libro che non si apriva da tempo.

Dal nome luminare della old time music ad una giovane artista multimediale, Moriah Rose Perieira, in arte Poppy. Il suo I disagree (uscito giusto un anno fa, il 10 gennaio), titolo strepitoso e copertina black metal, è un frullatore di generi e stili anche antitetici fra loro (pop/j-pop/k-pop/rap/synth/industrial/rock/death/metal/prog/art), assemblati in maniera schizofrenica, per un risultato originale, eccitante e coinvolgente.

I Fontaines D.C. li ho recensiti (A hero's death, 31 luglio) due post sotto, quindi ho poco da aggiungere, se non che il loro è l'album più solenne e magnetico del lotto. 

La sorpresa dell'anno è rappresentata senza tema di smentita da Mothers of all motherfuckers (7 febbraio) dei Green Day, un disco festoso, caciarone e carico di groove, imbullonato alla migliore tradizione garage-rnb. E' piaciuto a pochi, e questo aumenta il piacere del mio lato snob.


Il disco emozionale dell'anno non può che essere il ritorno dell'irresistibile Huey Lewis, sempre coi fidati The News, alle sue più classiche sonorità con l'EP Weather (14 febbraio). 


Con questi cinque dischi avrei anche terminato, non fosse che, analogamente a quanto fatto con il consuntivo dell'anno scorso e gli Swallow The Sun, mi gioco un azzardo, anzi due. Sono alle prime settimane di ascolto, ma  Starting over (13 novembre) di Chris Stapleton e Wednesdays (13 dicembre) di Ryan Adams, mi hanno trasmesso grandiose vibrazioni, che confido saranno dal tempo confermate.

 

Chest'è.


giovedì 14 gennaio 2021

Il processo ai Chicago 7


Nell'estate del 1968 le proteste delle diverse organizzazioni pacifiste americane contro la guerra in Viet-Nam sono al loro culmine. I movimenti più importanti, lo Youth International Party (YIP, cioè gli yippies) e gli Students for a Democratic Society, nonostante il veto delle autorità locali, organizzano una manifestazione, provocatoria ma pacifica, a Chicago, in occasione della convention nazionale del Partito Democratico. Ai leader dei due schieramenti principali, Abbie Hoffman per gli yippie e Tom Hayden per gli studenti, si aggiunge, sebbene con una permanenza poche ore nella città dell'Illinois, il leader delle Black Panther Bobby Seale. A seguito dei disordini che si verificheranno, tutti questi personaggi vengono arrestati e, in seguito, processati. A difenderli, con l'eccezione di Seale, il notissimo legale progressista William Kunstler.

Il processo ai Chicago 7 ha avuto una lunghissima gestazione, visto che la prima idea di portare quei fatti sul grande schermo l'ha coltivata Steven Spielberg nel 2006, già allora affidandosi alla penna del formidabile sceneggiatore e dialoghista (ma non altrettanto eccellente regista) Aaron Sorkin, che poi finirà per curarne proprio la regia, oltre alla sceneggiatura. Non sto a riassumere tutto ciò che ha portato il progetto a slittare di tre lustri, per questo c'è wikipedia

The trial of the Chicago 7 si  inserisce degnamente nella consolidata tradizione del legal thriller americano, portando sotto i riflettori una vicenda molto nota in ambito USA  e un pò meno dalle nostre parti. Già ricordare questa pagina nera della giustizia americana è un punto a suo favore, visto l'acclamato abuso di potere che si è consumato contro i manifestanti, fuori dalla convention, e a danno degli imputati, dentro l'aula di tribunale, nell'ambito della vicenda. E se non sono esattamente una novità l'atteggiamento repressivo e l'uso indiscriminato della forza nei confronti di manifestazioni pacifiche (ma solo quando vengono dalla parte sinistra dello schieramento politico, come ci è stato recentemente confermato dai fatti di Capitol Hill), il trattamento disumano cui è stato sottoposto in tribunale Bobby Seale, leader delle Black Panther, fu qualcosa di atrocemente inedito.

La difficoltà di mettere in scena questi fatti poteva risiedere nel tenere alta la tensione dello spettatore, rispetto ad una vicenda di cui già si conosceva la conclusione. Da questo punto di vista direi che l'ostacolo è stato ben superato, in particolare nella parti di narrazione in cui Sorkin ricorre al montaggio alternato tra tempo corrente e flashback dei disordini, grazie anche all'efficace crescendo musicale della colonna sonora. Bene le prove attoriali fornite da Sacha Baron Cohen, che interpreta in maniera tutto sommato misurata il leader rivoluzionario e idealista degli Yippies, di Eddie Redmayne nelle vesti del giovane politico Tom Hayden ed infine dei due anziani attori Frank Langella e Mark Rylance che interpretano, rispettivamente, il reazionario giudice Julius Hoffman e l'avvocato progressista William Kunstler. 

Il giudizio complessivo su un film drammatico che ha, come da tradizione di Sorkin, anche parti in cui si ride, è positivo ma senza eccellere, per via soprattutto della scelta di inserire, nel terzo atto, un elemento che sembra in qualche modo voler assolvere il violento e inconcepibile operato delle forze dell'ordine e per la sequenza finale del "riscatto" in aula di Hayden, che va archiviata sotto la voce: subdola ruffianata. 


Il processo ai Chicago 7 è disponibile su Netflix.

lunedì 11 gennaio 2021

Fontaines D.C., A hero's death


Il music business inglese, si sa, è, ancora oggi, nelle macerie di quello che una volta era il mercato discografico, il maggior generatore di hype ci sia al mondo. E' tanto veloce ad indicare con assoluta certezza la next big thing che stravolgerà la musica negli anni a venire, quanto lo è ad accantonarla e accendere i potenti riflettori su altri fenomeni. Per questo, oltre che per una istintiva diffidenza nel gettarmi sui nomi più acclamati dalla critica indie, ci sono andato cauto con gli irlandesi Fontaines D.C. dopo l'indubbiamente interessante debutto Dogrel, dell'anno scorso. Ma quando "il difficile secondo album" supera, a mio avviso, il debutto, anche per un dinosauro come il sottoscritto giunge il momento di accantonare ogni riserva e fare coming out.

Stabiliamo le coordinate: i cinque di Dublino (il front-man e cantante Grian Chatten più due chitarre, basso e batteria) pescano in quello che nell'ultimo decennio è diventato un infinito oceano di ispirazione e che risponde al nome di new wave/post punk inglese (genere che vede il suo apice nel lustro 1977/1982), con il nome luminare dei Joy Division a guidare la truppa. Nulla di particolarmente originale, se vogliamo, ormai non bastano le dita di due mani ad elencare le band di successo che devono al gruppo del povero Ian Curtis la propia profonda ispirazione.

Ma, come sempre, la differenza tra una cover band senza idee se non una scaltra fonte di ispirazione e un artista di talento (ecco, mi sono sbilanciato) è la qualità delle composizioni. E dentro A hero's death, com'era avvenuto per Dogrel, le canzoni di qualità ci sono eccome. A partire da una I don't belong languida, magnetica ed affascinate che apre il lavoro e via via per pressochè ogni singolo brano degli undici che vanno a comporre la tracklist. Per i primi ascolti ci si può divertire ad individuare gli apparentamenti degli stili (già detto dei Joy Division, con A lucid dream sovvengono i Cure di Three imaginary boys, così come Living in America rievoca gli U2 degli esordi o I was not born odora di P.I.L), ma, ascolto dopo ascolto, ogni ricerca delle fonti originarie di ispirazione viene spazzata via e resta l'incommensurabile piacere di ascoltare un'opera originale, densa, stratificata, ipnotica, realizzata con la personalità di chi, e sono pochi, piega un preciso genere musicale alla propria visione artistica e non il contrario.

A hero's death non può che rientrare in quella che sarà la mia scarna classifica dei migliori del 2020. Speriamo i Fontaines D.C. non si perdano per strada. Tuttavia, anche si fermassero qui sarebbe già tanta, tantissima roba.

giovedì 7 gennaio 2021

MFT, novembre & dicembre 2020

 ASCOLTI

Fontaines D.C., A hero's death
Bruce Springsteen, Letter to you
AC/DC, Power up
Chris Stapleton, Starting over
Draconian, Under a Godless veil
Dark Tranquillity, Moment
Hatebreed, Weight of the false self
Witchwood, before the winter
Billie Joe Armstrong, No fun mondays
Cats in Space, Atlantis
Garth Brooks, FUN
Bob Dylan, Rough and rowdy days
Ryan Adams, Wednesdays
Raven, Metal city
Ritmo Tribale, La rivoluzione del giorno prima


VISIONI

I trafficanti della notte (4/5)
Pusher 3 - L'angelo della morte (3,75/5)
Cattive acque (3,5/5)
Don't worry, he won't get far on foot (3,5/5)
Frost/Nixon - Il duello (4/5)
Personal shopper (3,5/5)
Cyrano mon amour (3,5/5)
Midsommar (3,75/5)
Copia originale (3/5)
A taxi driver (4/5)
Castaway on the moon (4/5)
Il piccolo grande uomo (4/5)
Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (3,75/5)
The social network (3,5/5)
Le signore del crimine (2,75/5)
Un giorno di pioggia a New York (3,5/5)
Star Wars Episodio IV - Una nuova speranza (4/5)
Addio fottuti musi verdi (3/5)
Uomini e lupi (3,5/5)
Una 44 magnum per l'ispettore Callaghan (3,5/5)
Doppio sospetto (3/5)
Goksung (4/5)
Zombie vs zombie (4/5)
Star Wars Episodio V - L'impero colpisce ancora (4,25/5)
La voce - Il talento può uccidere (3/5)
L'uomo che uccise Don Chisciotte (4/5)
The yellow sea (3,75/5)
Cielo di piombo Ispettore Callaghan (3,5/5)
Coraggio...Fatti ammazzare (4/5)
Chocolate - La furia (3,5/5)
Un cavallo per la strega (2,75/5)
Mi chiamo Francesco Totti (3/5)
The gangster, the cop, the devil (3,25/5)
Scommessa con la morte (3,25/5)
Il terzo omicidio (3,5/5)
Star Wars Episodio VI - Il ritorno dello Jedi (3,75/5)
Il grande caldo (4,5/5)
Tokyo Tribe (4/5)
Tiger mountain (3,75/5)
Una calibro 20 per lo specialista (3,5/5)
L'uomo del labirinto (1,5/5)
Il talento del calabrone (2/5)
Star Wars Episodio I - La minaccia fantasma (3,25/5)
Star Wars Episodio II - L'attacco dei cloni (3,25/5)
Se mi vuoi bene (2/5)
Criminali come noi (3/5)
The truth about Charlie (2/5)
Dieci giorni con Babbo Natale (1,5/5)
Star Wars Episodio III - La vendetta dei Sith (3,75/5)
The lighthouse (3,5/5)
Mank (3,75/5)
In vacanza su Marte (1,5/5)
Freaks (2018) (3,5/5)
The whispering star (4/5)
The gentlemen (3/5)
La belva (3/5)
I'm your woman (3/5)
Silent night (2012) (2,5/5)
Midnight sky (3/5)
Dolittle (2020) (2,75/5)
L'ipnotista (2,5/5)
Elegia americana (2/5)
Headshot (3,5/5)

Visioni seriali

Suburra, 3 (2/5)
L'Alligatore (3/5)
McMafia (3,5/5)


LETTURE

Woody Allen, A proposito di niente