lunedì 11 febbraio 2013

Ben Harper with Charles Musselwhite, Get up! (2013)




All'inizio suonava perlopiù seduto. Su una sedia che somigliava ad un trono tribale. Sapeva toccare corde profonde, comunicare empatia, suggestioni, intensità. Nella sua musica convivevano le eredità musicali di Jimi Hendrix e Bob Marley, Marvin Gaye e Robert Johnson, Led Zeppelin e, a tratti, il folk intimista di Nick Drake in un armonia e un equilibrio irripetibile. E infatti, dopo lo splendido Live from Mars, compendio ideale del primo folgorante decennio di carriera e disco dal vivo tra i più rimarchevoli dell'ultimo quarto di secolo, sono arrivate la svolta ruock che l'ha portato ad esibirsi assecondando clichè che vogliono la star in piedi davanti al microfono con la chitarra al collo come un Lenny Kravitz qualunque, e la lenta ma inarrestabile, fase calante. Della mezza dozzina di dischi incisi dal 2003 ad oggi si salva giusto qualche sporadica traccia e la collaborazione con il gruppo gospel Blind Boys of Alabama, a dimostrare quanto, sebbene l'ispirazione di Ben fosse in secca, l'amore per le radici della musica continuasse invece a bruciare.

Allo stesso modo è oggi una boccata d'ossigeno Get up! ultimo lavoro in condivisione con la settantenne leggenda del rock-blues Charles Musselwhite. Un disco di blues prevalentemente acustico che evidenzia passione e caparbietà nel portare avanti una proposta musicale lontana da clamori e classifiche.
L'album è composto da dieci tracce, nelle quali funziona bene l'amalgama tra voce, testi e chitarra di Harper e attitudine di Musselwhite, la cui armonica conferisce tensione ed elettricità al progetto. Si comincia con Don't look twice che subito ci scaraventa nel mood  dell'opera con il suo incedere rilassato da delta del Mississippi, ma è qualche traccia più avanti che si entra veramente nel vivo. E lo si fa,inaspettatamente, con un cambio di marcia. We can't end this way , è infatti un pezzo arioso dalle evidenti reminiscenze gospel che non può non rimandare immediatamente alla collaborazione con i Blind Boys of Alabama. A seguire il perentorio ed irresistibile incedere di I don't believe a word you say (tributone a Muddy Waters) e la meravigliosa You found another lover (I lost another friend) che ha dignità tale da meritarsi un posto tra le migliori produzioni di Ben. Si torna poi al filo conduttore musicale della collaborazione con Blood side out, la title track e All that matters now, ma resta il precedente il trittico di brani il meglio dell'opera, anche se è il lotto che più si discosta (insieme a She got kick, dalle parti di B.B. King) dallo stile complessivo del lavoro. Certo, una contraddizione, ma che non toglie significato al più che positivo giudizio finale.

7,5/10


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