Non per essere banale citando la famigerata nuvola dell'impiegato di fantozziana memoria, tuttavia era ampiamente prevedibile che il mio ritorno ad un concerto potesse essere funestato da qualche evento esterno incontrollabile. Infatti in quel del Club Magnolia di Segrate che affaccia sul "mare di Milano" (l'Idroscalo), prima dell'inizio dello show si scatena un bell'acquazzone che mi allunga la Guinness e si aggiunge ai crauti dell'hot dog, facendo presagire un altro rinvio di un'esibizione già rimandata un paio d'anni fa per covid.
Ma facciamo un passo indietro.
I Fontaines D.C. li scopro leggendo le recensioni del loro primo album (Dogrel) da parte di critici con l'orecchio buono e molto attenti alle novità di qualità, quindi quanto più possibile lontano dalle mie aree d'interesse, molto più terra terra e consolidate. Ormai, avendo un età, capisco abbastanza d'istinto quando non è roba per i miei denti e lascio perdere, tanto è vero che, magari sbagliando, ma non ho mai assecondato tutto il filone di revival post-punk new wave della prima parte degli anni zero. Qui però, non so se per la provenienza della band (Dublino, quel D.C. nel nome sta proprio per Dublin City) o per qualche assonanza coi Pogues (che respingo) individuata dai critici togati di cui sopra, mi ci sono messo di buzzo buono. E anche laddove non mi spingerei a parlare di folgorazione, sicuramente di colpo di fulmine (che per antonomasia potrebbe essere effimero), beh, quello sì. Fatto sta che ho consumato i CD dei primi due album (al debutto ha fatto seguito A hero's death) e mi sono fiondato su Skinty fia, il terzo, appena pubblicato (tre dischi in quattro anni, una media d'altri tempi).
Insomma, il tutto per dire che appena ne ho avuto l'occasione li ho voluti testare dal vivo. I ragazzi erano da poco stati a Milano (sold-out all'Alcatraz, a marzo) ma, come accennato, dovevano recuperare una data rinviata al Magnolia, e quindi rieccoli. Arrivo presto, diciamo un paio d'ore prima dell'orario previsto di inizio, parcheggio lontano per evitare gli imbottigliamenti all'uscita dal parcheggio di prossimità e scruto le nuvole nere sopra la mia testa. Per fortuna: a) quando inizia il temporale ho quasi finito di consumare il junk food di rito b) il Circolo ha un discreto spazio coperto che mi consente di limitare i danni. La temperatura è comunque scesa, io sono con una polo bianca impiegatizia che stona a fianco del tanto nero sfoggiato (white is the new black?), farei la follia di comprare una felpa brandizzata con nome della band ma, curiosamente, non c'è banchetto con merchandising nè ufficiale nè tarocco.
Ci si guarda come di rito attorno e la fauna è abbastanza variegata. Noto con piacere numerosi ultracinquantenni con magliette vintage (a sorpresa Bahahus batte di misura Joy Division) che non lesinano racconti su concerti storici di Milano primi anni ottanta. In generale, per essere un concerto rock, l'età non è comunque verdissima, direi una media tra i trenta e i quaranta. Il bill annunciava degli ospiti, che, con l'approssimarsi delle nove, è parso chiaro a tutti che non ci sarebbero stati. Con la schiarita intanto il posto si è affollato, bene ha fatto chi, avendone le possibilità (cioè il fisico), non ha mollato le transenne nemmeno nel massimo dell'acquazzone, come un novello capitano Achab.
Non si capisce se per abitudine o per un check approfondito di palco e strumenti dopo la pioggia, fatto sta che i Fontaines D.C. salgono sul palco con un bel tre quarti d'ora di ritardo sullo schedulato.
Look random della band: bassista in improponibili shorts da spiaggia, chitarrista solista ineccepibile in outfit da rocker figo, cantante agghindato come se avesse dimenticato di fare il bucato e avesse recuperato panni abbinandoli a caso dal cesto della biancheria sporca prima di scendere al pub. Al netto di queste frivolezze, l'attacco di Lucid dream è sconquassante.
Mi aspettavo, forse temevo, una band statica e un pò cupa che proponesse i suoi pezzi in modalità catatonica e mi ritrovo al contrario un frontman (Grian Chatten) che non spiaccicherà una parola per tutto il concerto ma che attraverso una fisicità tanto epilettica quanto comunicativa interpreta adeguatamente versioni molto più potenti e aggressive delle composizioni, coadiuvato in questo da un drumming poderoso e da un efficace utilizzo delle luci.
Si capisce che il pubblico ha ben recepito non solo i pezzi, ma anche il mood lirico del gruppo, che, talvolta, supplisce all'assenza di ritornelli con strofe-mantra ripetute ossessivamente, rimandate entusiasticamente verso il palco. Non sembra ci siano preferenze particolari tra le tracce di un album o di un altro, che si tratti di Sha sha sha, Roman Holiday o I don't belong, il ritorno in termini di entusiasmo è sempre garantito. Detto dell'istrionismo del frontman - i Fontaines D.C. si stanno progressivamente affrancando dal modello Joy Division, ma devo dire che nelle movenze Grian ricorda ancora il povero Ian Curtis - , la band tiene il palco in maniera molto cool, vale a dire nessuna moina particolare da parte degli altri componenti, ognuno fermo al suo posto.
Superata da poco la metà del concerto, proprio al termine di un'esaltante Too real, il chitarrista Carlos O'Connell, richiama l'attenzione di tutti indicando un punto tra la folla. Qualcuno si è sentito male. Il gruppo decide di fermare il concerto per "l'incolumità generale", dando modo al personale sanitario di soccorrere il malcapitato. Devo dire che in tanti anni di concerti non mi era mai capitato di assistere ad un gesto di questo tipo (anzi... ho visto lasciar correre situazioni ben più gravi): un altro punto a favore della genuinità dei ragazzi.
Lo stop dura una quindicina di minuti e quando la formazione rientra sul palco, quasi per "giustificare" l'interruzione, annuncia un brano aggiuntivo in scaletta. Inoltre, senza che questo venga comunicato, la seconda parte dello show non avrà la classica interruzione prima dei bis e il concerto arriva pertanto senza ulteriori stop alla sua conclusione. Il brano aggiunto alle scalette fin qui suonate (piuttosto immutabili, per la verità) è la suggestiva opener di Skinty fia, In à gCroìthe go deo.
La band ha il controllo totale della situazione, manca solo l'acme, il tripudio finale, che arriva senza sforzo con Jackie down the line e The boys in the better land prima della conclusiva I love you.
Mi sono dilungato nella premessa, non lo farò per le conclusioni. Era da tempo che non assistevo ad un concerto che mi lasciasse così tante scorie emotive nella testa e nel petto, soprattutto non trattandosi di una band di cui conosco a memoria tutte le canzoni e così fuori dalla mia canonica sfera d'interesse (anche se poi, mettendo in pausa la commiserazione, quando la musica è buona non mi pongo steccati).
E' valsa la pena vincere pigrizia e sfidare il maltempo per non perderseli.
Mi estraneo dal dibattito perennemente in corso: che diventino i nuovi U2 o che si perdano col passare del tempo, personalmente lo ritengo irrilevante. Carpe diem.