Volendo mantenere la "giusta distanza" critica, i dischi degli ultimi Volbeat andrebbero recensiti dopo pochi ascolti, quando le orecchie sono vergini e hai bene chiaro in testa cosa funziona e cosa no. Se invece commetti l'errore di dargli più tempo di sedimentazione, finisci inevitabilmente invischiato nelle spire delle melodie assassine create da Micahel Poulsen (ad oggi senza dubbio uno dei migliori, in questo campo) vedendo fuggire ogni spirito critico.
Metto subito le mani avanti per giustificare il fatto che questa sarà una recensione molto dibattuta, tra il "tradimento" della filosofia musicale dei vecchi Volbeat, per i quali fu colpo di fulmine, e questi nuovi, più mainstream, ma subdolamente seducenti.
Giusto per stabilire un perimetro di ragionamento sulla vita del gruppo, la mia impressione è che il loro apice creativo, il lavoro con il quale sono stati più in grado di bilanciare le due anime che contraddistinguono la band, melodia e furore, è stato Outlaw gentlemen & shady ladies, album del 2013, quinto in meno di dieci anni di storia, nei quali i Volbeat hanno imbullonato il proprio stile personale.
Dal successivo Seal the deal & let's boogie le cose cominciano a cambiare, le asperità si smussano, l'equilibrio si sbilancia decisamente verso la ricerca ossessiva del refrain e del catching, non senza qualche passo falso.
Ecco, la prima parte della mia recensione a quel lavoro, nella quale lamentavo questa sorta di imborghesimento, potrebbe essere ripresa paro paro per questo ultimo Rewind, Replay, Rebound, solo inspessendo ancora di più il concetto.
I Volbeat del 2019 sono diventati uno dei prodotti più redditizi del music business del rock, ed in virtù di questo aspetto hanno guadagnato spazi e luoghi di esposizione inimmaginabili solo qualche anno fa. Certo, dello status di grande band hanno purtroppo ereditato anche le cattive abitudini, come quella di escludere da interviste e promozioni i media che hanno avuto l'ardire di scrivere recensioni negative, scatenando, come conseguenza legittima di una nazione attenta a questi aspetti, il boicottaggio dell'intera stampa danese (potete leggere il dettaglio qui).
Ciò nonostante per Rewind, Replay, Rebound è stato creato l'hype dei grandi eventi, con molti dei brani anticipati attraverso dei video, interviste a pioggia e via discorrendo.
Poi finalmente arriva la data della release e la copertina irradia immediatamente un'ulteriore rottura con il passato, attraverso la rinuncia alle immagini iconografiche e ai meravigliosi disegni fin qui realizzati per tutta la discografia della band, abbandonati in vece di un'idea loffia e già ampiamente sfruttata da altri (gli ultimi a memoria mia sono stati i Thunder di Wonder days), cioè rappresentare se stessi come ragazzini (spunto ripreso anche dal video di Cheapside sloggers).
A questo punto ci attendeva l'ultima verifica, la più importante, relativa alla qualità delle composizioni: quattordici nell'edizione standard del disco, per una durata complessiva che accarezza l'ora.
Last day under the sun ci accoglie dentro la nuova creazione Volbeat con uno stile onomatopeico del titolo, chitarre ariose e ritornello solare ripetuto come un mantra che dà subito l'imprinting del disco.
La successiva Pelvis on fire è invece lo schema sul quale sono costruite altre composizioni dell'album (Rewind the exit, The everlasting), con un bell'attacco finalmente metal che resiste però solo una manciata di secondi, per aprirsi ad un pattern molto più fruibile, nel quale, nello specifico della traccia, si riprende una rivisitazione di vintage rock and roll già battuta nel vecchio repertorio, ai tempi di Sad man's tongue o 16 dollars.
Inoltrandoci nell'ascolto viene sostanzialmente confermata l'impressione iniziale, il disco suona davvero bene, sia dal punto di vista tecnico che dell'alternanza dei brani, si vede che ci sono produzione e arrangiamenti importanti, qualche brano emerge prepotentemente (Die to live con Neil Fallon dei Clutch; Sorry sack of bones; Cheapside sloggers con Nick Holt, ascia di Exodus/Slayer; i 37 secondi di Parasite; Maybe I believe), ma in tutta questa pulizia la componente cazzimma pare definitivamente evaporata, e con essa ogni fascinazione country.
Anche la tracklist appare forse eccessivamente lunga e volendo si sarebbero potuti tagliare almeno un paio di brani (mi sovvengono la scolastica When we were kids e la conclusiva 7:24, che richiama l'ora nella quale è nata la prima figlia di Michael - si sa, la paternità causa sui rocker più danni della grandine - ).
La logica conclusione di questa recensione dovrebbe essere una stroncatura, tuttavia non riesco a parlare in termini esclusivamente negativi di Rewind, Replay, Rebound, un pò perchè provo per la formazione capitanata da Poulsen / Caggiano un'innata simpatia, e poi perchè, e qui torno al dilemma iniziale, questo disco l'ho ascoltato e lo sto ascoltando davvero tanto e alcune sue composizioni continuano a rimbalzarmi in testa in qualunque momento della giornata, ad alimentare un cortocircuito tra cuore e cervello che stavolta vi restituisco, irrisolto.
3 commenti:
condivido in pieno tutto. "When we were kids" canzone inutile, che skippo con regolarità.
In ogni caso al Fabrique picchieranno come fabbri ferrai.
O almeno lo spero...
Filo ovviamente è la mia canzone preferita. Il resto aggiungilo te...mi raccomando il casco.
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