A giudicare dalle recensioni di questa ultima fatica di
Tarantino, ho l'impressione che più di un critico, a cui evidentemente il
regista non è mai andato a genio, non aspettasse altro che poter far deflagrare
tutto il proprio disprezzo.
Difficile spiegare altrimenti alcuni giudizi feroci,
cattivi e francamente esagerati come quello di qualcuno che ha definito la
pellicola "il giocattolo costoso di un bambino viziato".
Capisco invece lo spiazzamento dello spettatore medio, perché per certi versi, C'era una volta a... Hollywood è il meno tarantiniano dei film di Tarantino.
Mancano del tutto ad esempio i classici dialoghi "fuori contesto"
che, a partire da Le iene, rappresentano il marchio di fabbrica di Quentin,
così come un certo tipo di trama che qui, ad un occhio pigro, pare non porti a
nulla.
Allo stesso tempo però C'era una volta a... Hollywood è un film
totalmente tarantiniano.
A partire dalla volontà del regista di portare sul
grande schermo il suo incontenibile amore per un certo cinema minore e per
certa fiction della sua giovinezza, che sfocia nella
rappresentazione di un mondo dove finte produzioni si intrecciano con quelle
reali, attraverso un montaggio alternato (di Fred Raskin, qui alla terza collaborazione con QT) che nessuno si è degnato di definire
magistrale. Per non parlare della scelta dei pezzi della colonna sonora, con la solita prevalenza di composizioni poco note, e della sontuosa modalità con la quale essi accompagnano le immagini.
Concettualmente sembra che con C'era una volta a... Hollywood Tarantino abbia preso alcuni
degli elementi dei suoi ultimi film e li abbia espansi fino al limite, al tempo stesso comprimendone altri al minimo sindacale, così tutta la parte di "contorno" che precede
l'attesa esplosione finale si prende oltre due ore di proiezione, mentre
l'inevitabile sfoggio di ultra-violenza si scatena in pochi (non per questo meno
strepitosi) minuti.
Personalmente ho trovato C'era una volta a... Hollywood un gran bel film, con una coppia di attori (Di Caprio e Pitt) affiatati
e in forma, la solita pletora di star al servizio del Maestro (Al Pacino, Kurt Russell, Timothy Oliphant, Bruce Dern, Daniel Lewis, Michael Madsen, Luke Perry - qui alla sua ultima interpretazione - ), una messa in scena che avercene e un grandioso McGuffin sulle gesta di Charles Manson che ha depistato con successo sopratutto i media.
Se devo spendere una critica, è davvero inspiegabile il sotto utilizzo di una delle migliori attrici oggi in
circolazione, quella Margot Robbie costretta "dentro" una Sharon Tate impalpabile e
superficiale.
Che dire invece dell'omaggio a due tra i registi italiani meno "recuperati" dalla storia (almeno rispetto a Bava, Fulci, Di Leo o Lenzi), come Corbucci e Margheriti? Pura emozione. E nella parabola artistica di un Jack Dalton (Di Caprio) dimenticato dagli studios che si ricicla nel cinema di
genere italiano c'è la storia di tanti attori americani del passato e di un
cinema, quello italiano, che è stato immenso e che ora non si raccapezza più, tra
la mancanza di produttori competenti, piattaforme in streaming e lo svuotamento delle sale.
Il finale poi, malinconico, delicato e toccante, ti inchioda sulla poltrona con un sorriso triste dipinto in volto.
Dite quello che vi pare, ma per me questo è IL Cinema.
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