Gli anni novanta
sono stati l’ultimo decennio in cui la musica rock, il termine va inteso
nell’accezione più ampia possibile, ha davvero tentato di rompere con il
passato, o meglio con gli artisti più ingombranti del passato. Un po' come era
accaduto con punk e post punk vs quello che saturava le radio prima del 1976, tutto ciò che negli ottanta andava in alta rotazione su radio o MTV e riempiva gli stadi, in
una repentina spirale discendente suonò
irrimediabilmente vecchio e datato. Oggi sembrerà incredibile, ma calibri tipo
Springsteen, AC/DC o Rolling Stones (anche per momenti creativi un po' meh) smisero di vendere camionate di dischi e ridimensionarono le location dei loro concerti passando dagli stadi all’indoor per non
rischiare invenduti a migliaia.
D’altro canto però la
lezione del rock del passato era stata ben assimilati dai nuovi arrivati, ne era saturo il brit pop, il grunge ma anche il trip hop, e persino chi si misurava con la contaminazione tra
generi (i RHCP tra funk e hard rock o i RATM tra il rap e il metal) conosceva a
memoria la materia trattata, mettendola in pratica con entusiasmo contagioso,
attitudine credibile, autenticità, passione e talento.
Poi il “ROCK” si trasforma in una moda mainstream, il mercato musicale collassa, certo, per il p2p, ma anche
a causa di manager di major diventati incompetenti, ottusi e ingordi, e questo genere che era stato "di rottura" diventa bene di consumo al pari di un Big Mac. Un business come tanti altri dunque, rivolto prima ai quarantenni, poi ai cinquantenni e oggi
ai sessantenni.
Lo so, la premessa
rischierà di essere più lunga della recensione, ma mò ci arrivo.
I Cure tornano a
pubblicare un album dopo sedici anni dal precedente. E i precedenti (The Cure e
4:13 dream) sono stati probabilmente il punto più basso della loro intera
discografia. Songs of a lost world è un disco per cui si era creato un discreto
hype, non solo per la lunga iato ma pure a fronte degli innumerevoli annunci di release che si sono rincorsi negli ultimi anni. La band è
ormai una consolidata creatura di Robert Smith, unico rimasto della formazione
storica assieme al bassista Simon Gallup. I due, in questi anni di ondate di
revival post punk/new wave (se ne contano almeno due, quella degli anni zero e
quella in corso da qualche anno), si devono per forza essere avveduti della
centralità dei Cure dentro questi movimenti, visti
gli innumerevoli richiami che band di virgulti continuano a tributargli, e
dunque perché dannarsi con sforzi artistici innovativi?
L’album del grande
ritorno della band simbolo della dark wave nasce dunque con le stimmate
dell’instant classic: otto pezzi per una cinquantina di minuti, imbevuti della
tipica poetica gotica e decadente di Smith e di un sound immediatamente
riconducibile alla stagione che meglio conciliava gli ostici capolavori del
passato (Faith, Pornography) con l’assunzione a band affermata che raggiunse i i
grandi riscontri commerciali (Disintegration, Wish, ma anche il notevole e
sottovalutato – era il 2000 e vale il discorso di cui in premessa –
Bloodflowers).
Si perimetrano in
questa confort zone, i Cure, lasciando fuori la loro componente minoritaria più solare e pop
(non troverai tracce di Friday I’m in love, Why can’t I be you o Close
to me, o del mood di Japanese whisper, qui dentro) e pestando giù con gli elementi più identitari del loro
sound. A partire da Alone e fino a Ednsong si è subito - piacevolmente, lo ammetto - scaraventati
nel Cure Universe, con la sola Drone e: Nodrone ad accelerare un po' i
bpm.
Un buon album, legittimamente scaltro e totalmente nostalgico, che non può non piacere e che infatti è stato universalmente ben accolto dalla stampa musicale. Dopotutto anch'essa col tempo si è adeguata al trend, rassegnandosi alla retromania imperante che toglie respiro alla musica a venire (e se lo dico io...). L’aspetto divertente è che spesso sono gli stessi critici che venticinque-trent'anni fa stroncavano dischi anche migliori di questo (Bloodflowers, come accennato, per rimanere ai Cure), perché i lettori si erano distanziati dal genere, a portargli oggi l'acqua con le orecchie.
Songs of a lost world è insomma nè più nè meno il disco giusto al momento giusto, quello che tutti volevano, a dimostrazione che il buon Smith ha imparato a gestire la catena del valore della band, esattamente come farebbe un buon manager d'azienda.
P.S. Visto che tutto il post è una noiosa e geriatrica tirata sui “bei vecchi tempi” chiudo con una nota positiva: se più compact disc (intendo proprio l’oggetto fisico) fossero realizzati come Songs of a lost world (due cd, uno con le versioni originali e l’altro con i pezzi strumentali, un bluray con i pezzi della tracklist suonati dalla band, packaging di ottima qualità e un libretto con tutti i testi), forse l’acquisto tornerebbe ad essere più accattivante di un ascolto su spotify o dello sharing illegale. Ma forse anche no, vista la fase di disarticolazione dell’album in favore dei singoli brani. A proposito funzionava così anche negli anni sessanta. Giusto per chiudere il cortocircuito.
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