lunedì 30 dicembre 2024

The Cure, Songs of a lost world

 


Gli anni novanta sono stati l’ultimo decennio in cui la musica rock, il termine va inteso nell’accezione più ampia possibile, ha davvero tentato di rompere con il passato, o meglio con gli artisti più ingombranti del passato. Un po' come era accaduto con punk e post punk vs quello che saturava le radio prima del 1976, tutto ciò che negli ottanta andava in alta rotazione su radio o MTV e riempiva gli stadi, in una repentina spirale discendente suonò irrimediabilmente vecchio e datato. Oggi sembrerà incredibile, ma calibri tipo Springsteen, AC/DC o Rolling Stones (anche per momenti creativi un po' meh) smisero di vendere camionate di dischi e ridimensionarono le location dei loro concerti passando dagli stadi all’indoor per non rischiare invenduti a migliaia.

D’altro canto però la lezione del rock del passato era stata ben assimilati dai nuovi arrivati, ne era saturo il brit pop, il grunge ma anche il trip hop, e persino chi si misurava con la contaminazione tra generi (i RHCP tra funk e hard rock o i RATM tra il rap e il metal) conosceva a memoria la materia trattata, mettendola in pratica con entusiasmo contagioso, attitudine credibile, autenticità, passione e talento.

Poi il “ROCK” si trasforma in una moda mainstream, il mercato musicale collassa, certo, per il p2p, ma anche a causa di manager di major diventati incompetenti, ottusi e ingordi, e questo genere che era stato "di rottura" diventa bene di consumo al pari di un Big Mac. Un business come tanti altri dunque, rivolto prima ai quarantenni, poi ai cinquantenni e oggi ai sessantenni.

Lo so, la premessa rischierà di essere più lunga della recensione, ma mò ci arrivo.

I Cure tornano a pubblicare un album dopo sedici anni dal precedente. E i precedenti (The Cure e 4:13 dream) sono stati probabilmente il punto più basso della loro intera discografia. Songs of a lost world è un disco per cui si era creato un discreto hype, non solo per la lunga iato ma pure a fronte degli innumerevoli annunci di release che si sono rincorsi negli ultimi anni. La band è ormai una consolidata creatura di Robert Smith, unico rimasto della formazione storica assieme al bassista Simon Gallup. I due, in questi anni di ondate di revival post punk/new wave (se ne contano almeno due, quella degli anni zero e quella in corso da qualche anno), si devono per forza essere avveduti della centralità dei Cure dentro questi movimenti, visti gli innumerevoli richiami che band di virgulti continuano a tributargli, e dunque perché dannarsi con sforzi artistici innovativi?

L’album del grande ritorno della band simbolo della dark wave nasce dunque con le stimmate dell’instant classic: otto pezzi per una cinquantina di minuti, imbevuti della tipica poetica gotica e decadente di Smith e di un sound immediatamente riconducibile alla stagione che meglio conciliava gli ostici capolavori del passato (Faith, Pornography) con l’assunzione a band affermata che raggiunse i i grandi riscontri commerciali (Disintegration, Wish, ma anche il notevole e sottovalutato – era il 2000 e vale il discorso di cui in premessa – Bloodflowers).

Si perimetrano in questa confort zone, i Cure, lasciando fuori la loro componente minoritaria più solare e pop (non troverai tracce di Friday I’m in love, Why can’t I be you o Close to me, o del mood di Japanese whisper, qui dentro) e pestando giù con gli elementi più identitari del loro sound. A partire da Alone e fino a Ednsong si è subito - piacevolmente, lo ammetto -  scaraventati nel Cure Universe, con la sola Drone e: Nodrone ad accelerare un po' i bpm.

Un buon album, legittimamente scaltro e totalmente nostalgico, che non può non piacere e che infatti è stato universalmente ben accolto dalla stampa musicale. Dopotutto anch'essa col tempo si è adeguata al trend, rassegnandosi alla retromania imperante che toglie respiro alla musica a venire (e se lo dico io...). L’aspetto divertente è che spesso sono gli stessi critici che venticinque-trent'anni fa stroncavano dischi anche migliori di questo (Bloodflowers, come accennato, per rimanere ai Cure), perché i lettori si erano distanziati dal genere, a portargli oggi l'acqua con le orecchie. 

Songs of a lost world è insomma nè più nè meno il disco giusto al momento giusto, quello che tutti volevano, a dimostrazione che il buon Smith ha imparato a gestire la catena del valore della band, esattamente come farebbe un buon manager d'azienda.


 

P.S. Visto che tutto il post è una noiosa e geriatrica tirata sui “bei vecchi tempi” chiudo con una nota positiva: se più compact disc (intendo proprio l’oggetto fisico) fossero realizzati come Songs of a lost world (due cd, uno con le versioni originali e l’altro con i pezzi strumentali, un bluray con i pezzi della tracklist suonati dalla band, packaging di ottima qualità e un libretto con tutti i testi), forse l’acquisto tornerebbe ad essere più accattivante di un ascolto su spotify o dello sharing illegale. Ma forse anche no, vista la fase di disarticolazione dell’album in favore dei singoli brani. A proposito funzionava così anche negli anni sessanta. Giusto per chiudere il cortocircuito.

Nessun commento: