lunedì 12 febbraio 2024

Recensioni capate: The whale (2023)


Charlie è un professore di lettere che tiene corsi di laurea in modalità remota. A seguito della morte del suo compagno, decide più o meno consapevolmente di lasciarsi morire. Scivola in una condizione di obesità patologica che lo imbarazza (non incontra estranei e durante le lezioni on line tiene la propria fotocamera spenta) e che, soprattutto, gli provoca frequenti attacchi cardiaci. E' assistito dall'infermiera Liz che lo accudisce con affetto e autorità. Ha una figlia adolescente, Ellie, con cui cerca di recuperare il rapporto, spezzatosi da quando  ha deciso di vivere a pieno la sua relazione sentimentale con un uomo, lasciando la famiglia.

Non lo volevo vedere, questo film. Lo ammetto, sono prevenuto sulle produzioni hollywoodiane in cui attori normodotati interpretano le disabilità con abbrivio nella corsa all'Oscar. Ne ho visti a sufficienza per alimentare i miei pregiudizi a causa di narrazioni basate alla fine sempre su pietismo e ricerca dell'empatia con il pubblico unicamente attraverso la leva della commozione a buon mercato. Dopodichè resto sempre un gran incoerente (oltre che un appassionato cinefilo), e quindi, nell'ambito del recupero di alcuni film mainstream del 2023, l'ho messo sotto. E purtroppo le mie perplessità hanno trovato conferma.

Non che il film sia inguardabile, tutt'altro. La regia di Aaronfsky e la scelta di trasmettere ulteriore angoscia e claustrofobia attraverso l'uso del formato 4:3 rendono efficace la trasposizione del soggetto rispetto all'origine teatrale, almeno a livello di estetica. Bene poi il focus sul tema poi dell'obesità, probabilmente una delle patologie per noi tutti più respingenti, e verso la quale si colpevolizza maggiormente chi ne soffre, così come la critica sul sistema sanitario americano o il radicalismo di alcune organizzazioni religiose, e pur tuttavia è quello che in ultima analisi alza il livello di una pellicola (sceneggiatura, dialoghi, recitazione) che mi ha lasciato perplesso. 

Parto necessariamente da lui, Charlie/Brendan Frasier (Oscar, va da sè, tutti a dire bravissimo, io continuo a pensare che questi ruoli siano più "semplici" da interpretare di altri) in odore di santità: un personaggio paziente, educato, colto, disponibile e altruista fino all'estremo sacrificio. E che cazzo, perchè non farlo anche camminare sulle acque o volare (e in effetti...)?!? 
E poi c'è Ellie, la figlia, presentata come disadattata a causa del dolore inferto dall'abbandono paterno ma fatta interpretare da un'attrice (Sadie Sink) che non rimanda proprio alcuna condizione di disagio ed è quindi costretta a forzare sull'interpretazione e sui comportamenti da stronza (anzi no, genio incompreso) che compie in continuazione. 

Così gli aspetti positivi cui accennavo in precedenza, vale a dire la critica alla società americana, la morale ultra-cattolica e il disgusto che provoca in molti la sola vista di persone obese, ne escono ridimensionati. E anzi, la contro-morale che il film ci impartisce, laddove sembra quasi che la scelta di Charlie di abbandonare moglie e figlia piccola per vivere la sua relazione d'amore omosessuale sia, nell'ottica degli autori, più giustificabile, sostenibile e legittima che nel caso di tradimento per un'altra donna, arriva ad essere financo un pò fastidiosa. L'assioma, che si regge sul coraggio che questa scelta ha di andare contro, sfidare le convenzioni pubbliche  avrebbe avuto un grande senso negli anni cinquanta, oggi, insomma, direi di no. 

Che dire? Il mio bel pianto me lo sono anche fatto, ma that's all.

2 commenti:

Kris Kelvin ha detto...

Lascio il commento solo per ringraziarti per portare avanti questo bellissimo blog, che ho scoperto solo per caso: ho letto i commenti su Margini e Perfect Days e li ho trovati perfetti. Ma aldilà dell'essere d'accordo o meno su una recensione mi piace il tuo modo di analizzare i film. Ti ho messo tra i miei preferiti, tornerò a leggerti spesso.

monty ha detto...

Caspita, ti ringrazio, farò lo stesso :)