giovedì 11 febbraio 2021

Il colpevole (2018)


Copenaghen, sala operativa del soccorso telefonico della polizia. Asger è uno degli agenti incaricato di raccogliere le telefonate che arrivano copiose e di tutti i generi. Il nostro non è entusiasta di ricoprire quel ruolo ed emerge che si trova lì solo in attesa di subire un processo per qualcosa che ha commesso in servizio. Nel corso del suo turno riceve la telefonata di una donna che riesce, fingendo di parlare con la figlioletta e non con la polizia, a fargli capire di essere stata rapita. L'esito di questa vicenda avrà più di una conseguenza inimmaginabile sia per Asger che per Iben (la donna al telefono).

Ogni volta resto basito su come, ad altre latitudini, con una buona idea ed una messa in scena al risparmio, si ottengano risultati straordinari, a differenza dell'Italia dove qualcuno ha avuto il coraggio di incensare Il talento del calabrone, uno dei film più inverosimili, maldestri ed involontariamente comici che mi sia capitato di vedere di recente. Che San Di Leo ci assista, se la rinascita del cinema di genere italiano passa da quelle parti. 
Ho citato quell'obrobrio perchè, volendo, la trama potrebbe avere qualche punto di contatto con questo meraviglioso film danese. Giusto qualche punto, perchè ne Il Colpevole il regista Gustav Moller, al contrario del suo omologo italiano, riesce a creare tensione e angoscia sostanzialmente con un attore, un telefono e una stanza e mezzo senza mai perdere la verosomiglianza degli eventi. Non siamo dalle parti di Locke, appena recensito, ma insomma ci passiamo molto vicino. Il protagonista, interpretato da un Jakob Cedergen che ha la giusta faccia da poliziotto stronzo, non si rende conto fino all'epilogo di come la vicenda che sta gestendo lo coinvolga nel suo inconscio più nascosto, e di come gli permetta, attraverso gli errori di valutazione che commette, di arrivare ad una catarsi liberatoria e purificatrice. 

Dobbiamo avere l'umiltà di prendere esempio da produzioni così.


Il colpevole è disponibile su Amazon Prime Video.


lunedì 8 febbraio 2021

Garth Brooks, FUN


Nel modesto film City of lies, che porta sullo schermo l'indagine sull'omicidio di Notorious B.I.G., c'è una battuta che ben rende cosa abbia rappresentato Garth Brooks nei novanta americani. Un testimone inascoltato dell'attentato al rapper dice al detective che testardamente continua a seguire il caso che la polizia non si è impegnata a cercare l'assassino dei Biggie perchè egli era nero e che sarebbe stato tutta un'altra cosa se il morto fosse stato Garth Brooks. Avrebbe potuto citare un qualunque artista bianco, e invece la citazione della star del country certifica come, in quel periodo, pochi come lui monopolizzavano etere e canali musicali televisivi.
Come già riportato, dopo l'abbuffata di quel decennio, Garth si ritira dalle scene per una decina di anni per tornare a pubblicare regolarmente dischi a partire dal 2014. Qualcosa è però accaduto in quel decennio. La forma dei tempi migliori, non solo quella fisica, è un ricordo sbiadito. Gli album (in particolare Man against machine) sono cupi, lo stile rimbalza confusamente tra vari generi. Niente di inascoltabile, s'intende, però il tiro che l'aveva reso famoso, ricco e popolare risulta disperso. 

Sarà per questa ragione che con l'ultimo disco il buon Garth abbia voluto esplicare già dal titolo il ritorno alla leggerezza dei tempi migliori. 
E FUN mantiene tutte le premesse già dall'ariosa opener country-rock The road I'm on, garanzia della riconversione a quel frizzante honky-tonk suo marchio di fabbrica. Ovvio, non si torna ai fasti di Ropin' the wind oppure The chase, ma in quest'alternanza di gighe (All day long; Dive bar - feat. Blake Shelton - ; Party gras; Easy living) e ballate (Shallow - con la moglie Trisha Yearwood - ; Where the cross don't burn - feat. Charley Pride, che sarebbe morto poco dopo - ; The courage of love), assieme alle altre influenze pop, rock and soul che infiorettano la tracklist fanno, a detta di chi scrive, il disco più divertente che il countryman abbia sfornato da molto tempo. 

Bene così.

giovedì 4 febbraio 2021

Locke (2013)


E' notte, Ivan Locke esce da un impianto industriale e sale sulla sua auto. Una volta partito si collega con il vivavoce al telefono. Deve dire al suo capo che non sarà presente l'indomani mattina per dei lavori di un'importanza enorme (è capocantiere), ma, soprattutto, deve confessare a sua moglie un tradimento ed affrontarne tutte le conseguenze.

Locke è quel tipo di film che rischia di essere "solo" un giocattolo, uno sfoggio di tecnica,un esperimento fine a sè stesso. Invece è un'opera assolutamente compiuta. La sfida che il regista Steven Knight ha lanciato è quella di girare un film in tempo reale, con la macchina da presa che non stacca mai da un'unica ripresa, quella di un uomo alla guida di una BMW la cui vita si sgretola nell'ambito di una notte, anzi delle poche ore che lo separano dalla sua destinazione. 

Perchè un progetto ambizioso di questa natura abbia successo serve, va da sè, l'interprete giusto. E in questo Knight ha avuto il meglio, vale a dire Tom Hardy, a mio modesto parere uno dei migliori attori della sua generazione. Titolo che gli conferisco non solo per le notevoli capacità attoriali ma anche per le scelte sui ruoli che, almeno fino ad un certo punto della sua carriera, ha compiuto (mi sovvengono Bronson, Warrior, La talpa, Mad Max, Legend) che ne hanno affermato versatilità e duttilità. 
In questa pellicola (sorretta da un'ottima sceneggiatura dello stesso Knight), la sua capacità di modulare voce, espressioni e linguaggio non verbale a seconda che parli col suo capo, con il sottoposto che, in maniera riluttante, dovrà sostituirlo, con la moglie, il figlio, la persona fragile che sta raggiungendo, o, ancora, sfoghi tutto il suo rancore verso il padre morto che l'ha abbandonato da piccolo, enfatizzando con orgoglio quanto lui sia diverso, fanno, letteralmente, il film. 

Un'opera magnifica, sicuramente unica, che riesce magicamente nell'obiettivo di innovare e sperimentare, emozionando.


Locke è disponibile su Amazon Prime Video

lunedì 1 febbraio 2021

Poppy, I disagree (2020)


Moriah Rose Pereira, in arte Poppy, è un'artista americana (nata a Boston, cresciuta a Nashville) che si muove trasversalmente a diversi media, in particolar modo tra social e musica. Si fa strada, ancora minorenne (è del 95) agli inizi degli anni dieci su youtube per poi approdare, nel 2017 e 2018, al mondo discografico, con due dischi (Poppy.Computer e Am I a girl?) orientati al cosiddetto bubblegum pop. La svolta stilistica arriverà da lì a breve. Solo quattordici mesi dopo il secondo album (ottobre 2018/gennaio 2020) viene infatti rilasciato I disagree, lavoro che, già dalla copertina, con un rimando estetico ai generi più estremi del metal, lascia intendere il passaggio dall'infanzia artistica alla sua maturità. Che poi, in realtà, la cosa non è così dicotomica, perchè se è vero che I disagree contiene elementi stilistici riconducibili all'universo metal, è altrettanto vero che gli stessi sono frullati assieme a decine di altri generi tra loro anche contraddittori, nel solco della modalità mash-up, solo senza sampler ma con musica suonata e originale.

Più facile capire ascoltandola che a spiegarla. E basterebbe per questo l'opener Concrete, che parte come un pezzo industrial alla Marilyn Manson, per poi passare immediatamente ad uno stacco prog-metal, ad un ritornello adolescenziale J-Pop, ad un break alla Queen, ad altri stacchi di rock pesante, fino ad un epilogo con assolo pulito di chitarra che rimanda a Brian May. Il tutto su un testo non esattamente da gita parrochiale (Bury me six feet deep / Cover me in concrete turn me into a street).
Ah. Uhm. Ok. Ciao Poppy.

A questo punto le opzioni sono due: coinvolgimento totale o rigetto. Bottle of smoke, come già saprete, avendo la redazione (...) del blog inserito il disco nei migliori dell'anno, ha optato visceralmente per la prima. Anche perchè, proseguendo con l'ascolto, le influenze invece di diminuire, se possibile, aumentano, con il ricorso a cambi di ritmo e stacchi progressive, riffoni nu-metal, tirate rap, elettronica e ritornelli squisitamente catchy. Il tutto per una doverosa durata controllata di trentacinque minuti, al netto di una re-issue del disco, con quattro pezzi in più.

Che dire? Io mi ci sono divertito a bestia, complice probabilmente anche una certa stanchezza che m'è emersa dall'ascolto dei soliti pattern pop-rock-metal. Non m'aspetto nulla di particolare dai prossimi lavori di Poppy, per com'è l'artista potrebbe anche tranquillamente tornare al pop o passare al nu soul iper prodotto da classifica. 
Che ci volete fare, alla mia età ci si limita a godere del presente.