Se ci fosse una graduatoria dei più improbabili fisici da metal singer, Udo Dirkschneider la vincerebbe a mani basse. Il sessantacinquenne ex frontman degli Accept non è mai ricorso a nessun tipo di intervento estetico per mitigare gli effetti del passare del tempo sulla sua immagine. Basso, tarchiato, con una pancia da birra di tutto rispetto, sembra più un pensionato che ha passato quarant'anni a fare il fabbro ferraio, piuttosto che una rockstar.
Ma forse è proprio questo l'elemento che me lo rende più vicino e simpatico. Al motto di "bando alle ciance e ai look elaborati, if you want heavy metal, you've got it", il buon Dirkschneider assieme alla sua ormai fidata band U.D.O. ha dato da poco alle stampe il suo diciassettesimo album in trent'anni.
E, beh, non serve che mi dilunghi troppo sullo stile di Steelfactory: classici riffoni che vanno giù dritti, ritornelli intonabili anche dopo averli ascoltati mezza volta e nessuna paura di cadere nel kitsch, al punto da inserire, durante il guitar solo di una traccia (Blood on fire), un classico fraseggio da tango di balera.
Insomma, via col lissio. Pardon, col metal.
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