lunedì 29 gennaio 2018

Logan (2017)


Il manifesto di Logan nelle sale cinematografiche mi aveva colpito molto per l'ostentazione del divieto ai minori di quattordici anni, perchè in passato, benchè i contenuti l'avrebbero consigliato (si veda l'ottimo ma volgarissimo Deadpool), mai era stata data una tale attenzione al target d'età degli spettatori, non foss'altro per un tema di incassi.
Oggi, dopo che finalmente sono riuscito a vedere il film, tutto mi è parso chiaro.
Il regista James Mangold, autore anche di storia e co-autore di sceneggiatura e soggetto (completato da tre fra i migliori autori di Marvel comics: Len Wein, Romita Jr e Roy Thomas), realizza infatti un'opera cruda ed esplicita, con esplosioni di violenza dalle parti dello splatter, dove non c'è spazio per calzamaglie colorate, e dove di canonicamente supereroistico c'è solo la (lontana) origine fumettistica dei characters.

Siamo nel 2029, in un futuro (ipotetico? alternativo?) nel quale i mutanti sono spariti dalla faccia della terra e un invecchiato, sofferente, cinico Wolverine si guadagna da vivere facendosi affittare come autista di vettura di lusso. La prima sequenza ci fa capire subito che l'eroe canadese è in disarmo fisico, nel momento in cui è messo in seria difficoltà da un gruppo di normali teppisti. Con il prosieguo della storia s'intuisce che Logan sta perdendo il suo famoso fattore rigenerante e, aspetto ancora più grave, l'adamantio, metallo usato per ricoprire il suo scheletro e dotarlo di artigli, lo sta avvelenando a morte.
L'obiettivo dell'ex X-Man (passatemi il bisticcio) è quello di accantonare la cifra necessaria a potersi permettere uno yatch con il quale vivere lontano da chiunque. Questo suo progetto di vita include la presenza di un ormai novantenne professor Xavier che, a causa di una malattia mentale degenerativa (che s'intuisce essere una comunissima demenza senile), combinata con il suo enorme potere telepatico, suo malgrado è diventato una minaccia per il mondo, oltre ad aver già causato la morte degli ultimi X-Men. Il progetto di Wolverine si scontra però con la richiesta di aiuto che gli arriva da una donna messicana che gli chiede di proteggere una bambina fuggita da una struttura scientifica segreta e ora inseguita da un gruppo paramilitare armato fino ai denti che la vuole riportare indietro. Logan non ne vuole sapere di tornare a vestire i panni del super eroe, ma le circostanze lo obbligheranno a prendere una decisione diversa.

James Mangold, regista discontinuo, ma che nei novanta e negli zero aveva a mio avviso piazzato almeno un grande film per decennio (Copland e Quando l'amore brucia l'anima), non solo lascia il segno anche su questa decade, ma firma con ogni probabilità il più maturo comic movie di sempre, superiore in questo aspetto, parere personale per il quale metto in conto opinioni discordanti, anche alla saga di Batman di Nolan. 
Hugh Jackman, dal canto suo, ci restituisce un Wolverine alcolizzato, stanco, claudicante, che ha perso tutto, compresa la voglia di vivere, al punto da andarsene in giro con una pallottola di adamantio (unico metallo che può penetrare la sua scatola cranica) in tasca, cercando il momento buono per farla finita. Ha il corpo ricoperto di spaventose cicatrici, lo sguardo spento e il passo incerto. Non vuole davvero più saperne di atti eroici e infatti all'inizio non si fa scrupoli ad abbandonare una bambina nella mani di terribili mercenari al soldo di scienziati senza scrupoli. 
Gli altri personaggi non sono da meno. Il Professor X (Partick Stewart), vecchio e malato, dà vita a dei dialoghi spettacolari con Logan, passando nelle sue elucubrazioni da vecchio saggio a nonagenario petulante, ad attimi nei quali lascia emergere la sua mente superiore. Un binomio, quello portato in scena dai due, inedito e di grande impatto, autentica forza motrice della storia, che gioca non solo sul rapporto mentore/studente, ma anche e soprattutto, in maniera non banale, su quello padre/figlio. La ragazzina, infine. La debuttante Dafne Keen fornisce con la sua interpretazione di Laura Kinney (nome in codice X-23), una prestazione semplicemente sconquassante. Per metà film recita solo con la fisicità e le espressioni del viso, e le sue scene d'azione battono per efficacia, realismo e ferocia quelle del protagonista. La sequenza in cui incontra gli sgherri degli scienziati all'interno del rifugio di Xavier, prima che vengano spiegati i suoi poteri, è una squisita scena da film horror. 
La mano di Mangold nella messa in scena è impeccabile, le scene d'azione sono credibili e cattive, la storia avvincente e per la prima volta dopo tanto tempo ci si sorprende a trattenere il fiato per la sorte dei protagonisti, perchè è chiaro che il film rompe qualunque schema, compreso quello del canonico lieto fine.

Questo atipico road movie nel quale tre generazioni di X-men attraversano in auto gli States avvince, diverte e commuove (sì, commuove) al punto che fa rabbia pensare allo scontato reboot che la Marvel senza dubbio farà del personaggio Wolverine (con un attore diverso da Hugh Jackman) invece di far sedimentare a lungo nel pubblico la memoria di questo film definitivo. 

giovedì 25 gennaio 2018

Fabri Fibra, Fenomeno


Pur non essendo appassionato di rap/hip hop, mi è sempre piaciuto concedermi occasionalmente delle puntatine in questo genere, con uno sguardo particolare alla scena italiana. Se in generale, nella musica che possiamo per semplicità definire leggera, il difficile sta nel mantenere la posizione acquisita più che nell'emergere, nel rap questo concetto è ancora maggiormente amplificato, sarà per la ripetitività del canone, perchè gli artisti nei primi due album sputano fuori tutto il veleno a disposizione o perchè dopo qualche anno i bluff si rivelano per ciò che realmente sono, in ogni caso, da Eminem a Marracash, la parabola dell'ispirazione è costantemente in discesa.
Personalmente ritengo che Fabri Fibra sia, quale sontuosa eccezione a questa regola, quello che è riuscito a mantenere il livello del suo flow e dei suoi testi più costantemente alto, album dopo album (che, limitandoci a quelli professionali e da solista, sono nove in quindici anni). Il Tarducci non è uno che resta particolarmente impresso per il look, l'outfit, i tatuaggi o i denti d'oro sfoggiati a favore di fotografo, a parlare è la sua musica e probabilmente (anche) per questo, da nerd quale sono, l'ho sempre apprezzato.

L'attenzione verso le canzoni e la struttura dei brani emergono prepotentemente anche in questo ultimo Fenomeno, nel quale Fibra riesce come di consueto a coniugare sapientemente divertimento e riflessioni intimiste, casino e disanima sociale, a petto orgogliosamente in fuori ma con autoironia, rinunciando quasi completamente al dissing, ingrediente base di tutte le ricette degli altri colleghi di genere.
Quando uno riesce, dentro un solo disco, a piazzare almeno quattro tormentoni micidiali quali Red carpet, Fenomeno, Pamplona e Stavo pensando a te, e in aggiunta a farti divertire, sorridere, emozionare, pensare (non male in questo senso la traccia numero otto, uno skit di Saviano), istigarti in auto a comportamenti tipicamente tamarri  (volume a palla e gomito fuori dal finestrino), per poi, a bruciapelo, trafiggerti con due tracce finali glaciali, tesissime e affilate come Nessun aiuto (rivolta al fratello, il cantante Nesli) e, soprattutto, Ringrazio (un j'accuse angosciante alla madre che è un bombardamento al napalm sulle ipocrisie dell'Istituzione Famiglia) vuol dire che lo specifico genere musicale passa in secondo piano, in presenza del talento autentico. 

Un disco lo può indovinare chiunque, stare vent'anni a questi livelli è per pochissimi. Soprattutto nel rap.

lunedì 22 gennaio 2018

M - Il mostro di Dusseldorf


Ad alcuni film bisogna avvicinarsi con rispetto e riverenza, soprattutto quando, come nel mio caso, mancano molte delle basi per approfondire un'analisi tecnico-critica realmente competente.
Questo post pertanto non ha l'ambizione di essere una recensione compiuta, ma si limita a raccogliere sensazioni ed emozioni emerse dalla visione di uno dei capolavori di Fritz Lang.

M - Il mostro di Dusseldorf è un film del 1931, il primo in cui il regista tedesco usa il sonoro dopo una dozzina di lavori (tra i quali Metropolis e Il dottor Mabuse) di cinema muto.
La storia, ispirata ad un reale fatto di cronaca, narra le vicende di un serial killer che uccide bambine, sconvolgendo con le sue aberranti gesta un'intera città, sprofondata nel terrore e nell'angoscia.
La polizia è sotto pressione in quanto non riesce a trovarlo, e nel tentativo di risolvere il caso mette sotto scacco la piccola e grande criminalità, che, vedendo precipitare i propri affari, decide di mettersi anch'essa sulle tracce del maniaco.

So che quella che segue è una considerazione banale e scontata, ma Lang in questo film, sia dal punto di vista narrativo ma soprattutto da quello visivo, pone le basi tecniche per il secolo di cinematografia a venire. 
L'uso del fuori campo nelle sequenze iniziali è insegnato alle scuole di cinema, ma sono a dozzine le intuizioni narrativo/visive da rimarcare: il montaggio alternato delle riunioni della polizia e delle organizzazioni criminali, il killer che fischietta un ossessivo motivetto prima di entrare in azione (dinamica caratterizzante per centinaia di pellicole a venire), il gesso che marchia con una M il cappotto dell'assassino, le ricostruzioni di alcuni avvenimenti per immagini fisse, il silenzioso esercito dei barboni, sono frammenti di un'opera d'arte che, come fa il palloncino della bambina con i fili del telegrafo, resta imbrigliata nella nostra memoria.
Così il sublime finale, con il mostro (un insuperabile, superlativo Peter Lorre), catturato dalla malavita e condotto davanti ad un tribunale di criminali che vorrebbe linciarlo per i suoi delitti, che si lancia in un monologo difensivo straziante ed epocale, sia per contenuti che per interpretazione dell'attore, con i lineamenti del viso che mutano espressività assecondando la rabbia, la rassegnazione, l'impotenza o l'orgoglio via via espressi dalle sue parole. La fase narrativa di questo "processo" apre negli spettatori profonde riflessioni sulla giustizia e su chi debba giudicare e basterebbe, da sola, a giustificare la visione del film.

La pellicola è girata nel 1931. Solo due anni dopo in Germania avrebbe preso il potere Hitler. La grande crisi economica che sconvolse la popolazione tedesca non è al centro della narrazione, ma la povertà e la delinquenza ampiamente diffuse sul territorio e mostrate senza reticenze da Lang fotografano fedelmente lo strato sociale nel quale il nazionalsocialismo attecchirà a breve, costringendo alla fuga, tra gli altri, anche lo stesso Peter Lorre, perseguitato a causa delle sue origini ebree.
Lo scenario storico e l'approssimarsi dell'evento più abominevole del secolo sono anticipati in maniera preveggente ed inquietante dalla battuta pronunciata da una madre nell'ultima inquadratura del film (censurata nella prima versione dell'epoca), infatti quando ella dice che "dobbiamo vigilare sui nostri figli", gli sciocchi guardano il dito (il mostro), gli altri la luna (l'avvento del Partito Nazista). 

giovedì 18 gennaio 2018

Power Trip, Nightmare logic


Poco metallo estremo tra i miei ascolti dell'anno appena trascorso. 
Eccezione di rilievo i texani (di Dallas) Power Trip, formazione sulle scene da un paio di lustri, ma con una discografia limitata a soli due full lenght: l'esordio Manifest decimation del 2013 e l'oggetto di questa recensione: Nightmare logic.
I generi frequentati dalla band (giusto per dare delle coordinate: thrash, sludge, crossover) sono tra quelli che, se eseguiti in maniera scolastica e con poca convinzione, risultano immediatamente artefatti e prevedibili. 
Per fortuna qui siamo invece al cospetto di uno di quei dischi (è presto per dire se anche di una band) in grado di rivitalizzare uno stilema, il thrash metal, tanto deflagrante alla sua diffusione (metà anni ottanta) quanto stantio oggi. Tra l'altro dici thrash e la mente subito corre ai Metallica o ai Megadeth, ma nel caso dei Power Trip le latitudini sono diverse, dalle parti più imbastardite di Exodus e Kreator. 
La coinvolgente resa sonora è merito della cazzimma dei cinque debosciati che compongono la band , ma anche, e soprattutto, di una capacità compositiva di rilievo, che, in mezzo all'immancabile tempesta di latrati chitarristici, e in poco più di mezzora di timing, è in grado di far emergere autentici instant classics quali Executioner's tax (Swing of the axe), Waiting around to die e la title track.

Una fredda, spietata e sconquassante logica da incubo che diventa un paradiso dei suoni per ogni onesto metalhead che si rispetti.

lunedì 15 gennaio 2018

Veloce come il vento (2016)


Come già scritto, il rapporto tra sport e cinema ha vissuto di picchi altissimi e vertiginosi sprofondi. Che un film tutto italiano sull'automobilismo potesse volare più alto delle mega produzioni americane sembrava quasi un atto di arroganza indicibile, come se il Molise dichiarasse guerra alla Russia. E invece questo Veloce come il vento riesce nell'impresa, raccontando la vicenda di due fratelli: lui, Loris (Stefano Accorsi) ex campione di Rally, ora allo sbando e dedito alla tossicodipendenza, lei, Giulia, diciassettenne talento in erba che compete nel campionato GT. La morte del padre dei due, che si era indebitato per far correre la figlia al punto di dare in garanzia la casa, e il rischio che il terzo fratello, il piccolo Nico, venga dato in affidamento, li costringe ad una convivenza forzata che, prima casualmente, poi sempre più convintamente, riporta Loris alla passione per le corse in sostegno alla sorella.

Detta così, sembra una storia scontata, ma fidatevi, lo sviluppo della trama riserverà più di una sorpresa, tagliando le curve della prevedibilità dei plot dei film sportivi in maniera sporca e personale. Si parla di grandissima prova di Accorsi e in effetti l'attore è oltre la media delle sue normali interpretazioni (non è mai facile impersonare in maniera credibile tossici o ubriachi), ma direi che la perfezione è un'altra cosa. Il suo personaggio funziona perchè (piccolo spoiler), dal punto di vista narrativo la sceneggiatura evita l'ovvio della della redenzione del tossico e del ritorno alla famiglia felice, e dal punto di vista estetico per la cura dei dettagli, come ad esempio i capelli unti, le mani rovinate e i denti marci, aspetto non sempre curato a dovere in characters di questo tipo (si pensi ad esempio al bravo Billy Bob Thornton che in Babbo Bastardo dovrebbe essere un derelitto, ma si ritrova con una dentatura perfetta e capelli "effetto spettinato"). 
Aggiungo che se la cava molto bene anche Matilda De Angelis, la protagonista femminile e che l'ottima regia di Matteo Rovere ci regala, tra l'altro, riprese delle gare dosate, ma efficaci e realistiche.

La rinascita del cinema italiano potrebbe passare anche da qui.

giovedì 11 gennaio 2018

Lindi Ortega, Til the goin' gets done (EP)


Dopo le parole di rara sincerità e disperazione rese pubbliche qualche mese fa, con le quali si rassegnava al suo fallimento nell'industria musicale di Nashville decidendo di tornarsene nella natia Toronto, Lindi Ortega saluta la parte più ipocrita e preconfezionata dell'industria country con un EP di quattro pezzi in cui la sua splendida voce, accompagnata dalla sola chitarra, adagia il proprio talento cristallino su un songwriting poetico e dolente, che vola alto, dove i gretti manager del music biz della hitsville del Tennessee e i loro prodotti plastificati non osano avventurarsi.
Til the goin' gets done dura poco più di quindici minuti, ma è un quarto di giro d'orologio da brividi, nel quale Lindi mette a nudo in musica tutte le sue cicatrici emotive, la devastante delusione per il suo fallimento, ma anche l'orgoglio di chi non ha voluto scendere a compromessi. 
Con una tracklist di quattro episodi sarebbe sciocco segnalare un brano piuttosto di un altro, ma diciamo che è impossibile non sciogliersi come un ghiacciolo sull'asfalto rovente di luglio ascoltando Waiting 'round to die (cover di Townes Van Zandt) o la conclusiva Final bow.

lunedì 8 gennaio 2018

Arrivederci amore ciao (2006)


Quando sostengo che l'ormai pavida industria cinematografica italiana non ha rispetto per le persone di talento, il primo nome a cui penso, tra gli artisti in vita, è quello di Michele Soavi. Figlio dello scrittore Giorgio, prima di cominciare a girare in proprio, lavora con maestri del calibro di Aristide Massaccesi (Joe D'Amato), Lamberto Bava, Dario Argento e Terry Gilliam per poi debuttare, nella seconda metà degli ottanta, con il genere horror, mettendo a segno un trittico convincente (Deliria, La chiesa, La setta). Successivamente si occupa di un film nato sfortunato, per il malinteso che sta dietro l'operazione Dellamorte Dellamore (1994), sceneggiato su un soggetto di Tiziano Sclavi e per questo inizialmente ritenuto dai fan di Dylan Dog il film sul loro eroe. In realtà l'opera, visionaria, grottesca, onirica, era tutt'altro e questo ne decreta il fallimento al botteghino, una lunga iato di Soavi dal cinema e l'inizio della sua liason con commercial e televisione.
Ci vogliono dodici anni perchè, nel 2006, finalmente, venga di nuovo data la possibilità al regista di lavorare per il grande schermo con una storia tratta dal romanzo di Massimo Carlotto Arrivederci amore ciao, nel quale lo scrittore padovano mette a frutto la sua esperienza di latitante per costruirvi attorno una micidiale struttura noir, di cui, per fortuna, qualcuno ha colto le potenzialità cinematografiche. 

Giorgio Pellegrini (Alessio Boni) è un ex-terrorista rosso scappato in America Latina, che ha la possibilità di essere condonato grazie ad appoggi politici di altri rifugiati influenti. Rientrato in Italia fa, suo malgrado, la conoscenza con i metodi spicci e la scarsa moralità dell'agente della DIGOS Ferruccio Anedda (Michele Placido) con il quale, dopo aver vanamente tentato di condurre un'esistenza onesta, stringe un'alleanza criminale. Parallelamente gestisce un club per "il vesuviano", un intrallazzone conosciuto in carcere. Nell'ambito di questa attività, scopre il pesante indebitamento di un uomo d'affari cocainomane e, contattata la moglie Flora (la quarantenne e bellissima Isabella Ferrari), dietro il ricatto di rovinare l'impresa di famiglia, la obbliga ad intrattenere rapporti sessuali con lui. 
La necessità di avere una facciata rispettabile da mostrare in società gli farà decidere in seguito di mettere in piedi un'attività onesta con una famiglia regolare, cosa che realizzerà sposando l'ingenua Roberta (Alina Nedelea). Ma, come in ogni noir che si rispetti, il passato tornerà a tormentare Giorgio.

La faccio breve: raramente ho visto in produzioni italiane una crime story così convincente, cattiva e anticonvenzionale. Il personaggio di Alessio Boni è strepitoso: un figlio di puttana dalla faccia d'angelo e gli occhi azzurri che per la propria sopravvivenza passa sopra chiunque, in maniera lucida e determinata. A partire dalla sequenza iniziale nelle foreste sudamericane, quando per riavere il passaporto uccide alle spalle e a sangue freddo l'amico di sempre, con il quale era fuggito dall'Italia, per passare alla soffiata dei nomi di tutti i vecchi compagni terroristi resa ad un luciferino Michele Placido, fino all'agghiacciante atto finale, Giorgio si rivela come un'inarrestabile strumento di morte che si attiva in un istante, qualora la sua esistenza, la sua libertà o il suo stile di vita siano messi in pericolo. 
Non è un caso che l'unica persona per cui Pellegrini sembra provare qualcosa di autentico (Flora/Ferrari) sia anche quella che non si concede a lui spontaneamente ma attraverso l'umiliazione del ricatto. Nonostante questo atto spregevole, a causa della propria personalità distorta, Giorgio si illude di poter costruire con lei una relazione "normale" e quando Flora, pagato il debito, lo scarica facendo deflagrare tutta la sua rabbia repressa, l'ex terrorista ha dipinto sul volto l'ingenuo sbigottimento di un fanciullo.
Giorgio Pellegrini è un personaggio nero di altissimo livello, uno che, in altri posti dove le storie hard boiled hanno la giusta considerazione, avrebbe avuto una lunga fila di attori smaniosi di interpretarlo. Da noi invece la produzione si è trovata di fronte ad una sfilza di no dei soliti attorucoli borghesi che, letta la sceneggiatura, hanno temuto per la propria carriera. Lo stesso Boni, pur accettando, chiede a Soavi per quale folle ragione voglia fare un film così.

Soavi, da par suo, gira in maniera magistrale: soggettive inquietanti (la carcassa del coccodrillo che galleggia in acqua fino a raggiungerne la riva, all'inizio del film); interni memorabili (il luogo dell'interrogatorio di Giorgio da parte di Anedda, con il pavimento allagato, le riprese dentro il club); meravigliose immagine oniriche (l'albero visto dal basso dopo l'esplosione della bomba); retaggi dalle precedenti produzioni horror (tutta la sequenza finale che vede protagonista Roberta, contenente un dichiarato tributo a Shock di Mario Bava), ma anche scene d'azione eccezionali, come quella della rapina.
Due parole infine sulla colonna sonora. Anche qui scelte all'insegna di un pubblico internazionale, con passaggi di pop elegante come Shout dei Tears for Fears e She drives me crazy dei Fine Young Cannibal, ma anche classici enormi come Aqualung dei Jethro Tull e Smoke on the water dei Deep Purple o piccole gemme della tradizione italiana come la struggente La notte di Adamo. Infine Insieme a te non ci sto più della Caselli, di cui il titolo del film riprende un passaggio. Che dire? Dopo aver visto Arrivederci amore ciao non riuscirete più ad ascoltarla con la spensieratezza di prima.

Niente di meno che un capolavoro.

venerdì 5 gennaio 2018

Prophets of Rage, Prophets of Rage


Non si è mai fermato un attimo Tom Morello. Probabilmente è più forte di lui, dopo lo split con i Rage Against The Machine (ma sarebbe più corretto dire con De La Rocha), ha continuato a suonare, cercando sempre di coniugare passione per la sei corde e impegno sociale (al netto dell'esperienza mainstream degli Audioslave), a fianco delle classi disagiate dimenticate dal sistema e dalla società: i Nightwatchmen, gli Street Sweeper Social Club, il reunion tour con i RATM, il periodo con Springsteen (2008/2015). Poi ad un certo punto: opzione romantica A) gli è venuta nostalgia della baaanda (cit.), oppure, opzione cinica B) ha realizzato che la grande visibilità l'avrebbe riottenuta solo riprendendo il sound dei RATM. Comunque sia, dato per irrecuperabile il rapporto con lo storico frontman della band (perso non si sa dove e come, con un album solista in cantiere da una quindicina d'anni), Morello rimette insieme la sezione ritmica originale (Commerford al basso e Wilk alla batteria) e per quanto concerne le parti vocali torna alle origini della sua ispirazione, ottenendo l'adesione al nuovo progetto del meglio della old school del rap delle due coste: Chuck D dei Public Enemy (Est) e B-Real dei Cypress Hill (ovest), oltre al contributo alla consolle di DJ Lord. A questo punto mancava solo un monicker efficace, e Prophets of Rage, titolo di una canzone dei Public Enemy dall'epocale It takes a nations of millions to hold us back, sembrava coniato su misura.
Così, dopo un warm up a base di concerti in piccoli clubs e un EP nel quale la band si scaldava con un paio di brani originali e qualche cover dal vivo, ecco giungere il momento del full lenght di debutto.
Pur scontate le debite differenze fra l'impatto di questo sound ad inizio anni novanta e la sua riproposizione oggi e fra la versatilità di Zack e l'impostazione più monocorde dei due sostituti, gli inconsolabili fan dei Rage Against The Machine trovano qui pane per i loro denti: il tipico sound machiniano, qualche anthem da intonare, come la cover suggerisce, col pugno alzato (Unfuck the world; Legalize me; Hail to the chief), ma anche pezzi più ruffiani (Living on the 110), o purissimi funk-rap (Take me higher), sempre all'insegna di liriche pregne di denuncia sociale e opposizione.
Insomma, un disco che compensa bene la scarsa spontaneità con un tiro micidiale, dove l'istinto ad alzare ancora e ancora il volume relega in panchina l'oggettiva distanza critica del recensore. E forse è giusto così.

mercoledì 3 gennaio 2018

The Dream Syndicate, How did I find myself here?


I Dream Syndicate non pubblicavano un disco da qualcosa tipo trent'anni. L'ultimo lavoro di studio (Ghost stories) è infatti datato 1988. Da lì in avanti Steve Wynn (leader del gruppo) ha fatto da solo, con risultati artistici quasi sempre apprezzabili, purtroppo costantemente accompagnati da esiti commerciali altrettanto marginali. Da qualche anno Steve ha rimesso in piedi la band per una serie di concerti, con buona parte dell'ultima formazione degli anni ottanta (quindi Duck alla batteria e Walton al basso) e finalmente, a settembre di quest'anno, ha rilasciato anche il "tanto atteso" quinto album dei DS, che si avvale peraltro della prestigiosa ospitata di Chris Cacavas alle tastiere. Per quei pochi che non lo sapessero, Chris era membro dei Green on Red (e poi anche dei Giant Sand), che insieme ai Dream Syndicate hanno composto l'epico binomio di elementi al quale si riconduce il Paisley Underground, sotto-genere rock marginale per molti, amato alla follia da pochi.
Molto si è discusso se How I did find myself here? sia effettivamente un nuovo disco dei Syndicate o l'ennesimo di Steve, dimenticando forse che, a partire dal fenomenale esordio di The days of wine and roses in avanti, la geometria della formazione losangelina è sempre stata di natura variabile, con l'unica costante proprio di Wynn.
Lo dico sempre: prima di esprimere ogni considerazione, perchè non si ascoltano i dischi? Io nel caso di How did I find myself here? l'ho fatto a lungo e questa opera, a prescindere dalla sua effettiva paternità, mi ha pienamente convinto. Non è da tutti un pezzo poetico ed elettrico quale Filter me through you, che apre la tracklist, o le influenze quasi noise/shoegaze che comunque non fanno perdere un colpo alla melodia di Glide e di Out of my head. Onestamente, ad ascoltare queste note non sembra di essere al cospetto di un artista quasi sessantenne che rimette insieme la banda per pagarsi i conti, ma piuttosto di un gruppo di giovani virgulti che scherzano con riverberi e rock and roll, tra Neil Young e Lou Reed.
E nel caso persistano ancora dubbi sulla qualità del lavoro, gli oltre undici minuti della splendida, lisergica, dilatata title track li spazzano immediatamente via. Altrimenti siete fans di Fedez.

Disco emozionale numero tre del 2017 (i primi due sono qui e qui).

lunedì 1 gennaio 2018

MFT, novembre e dicembre 2017

Il mio vecchio prof di fisica me lo diceva sempre di non lasciare accumulare il lavoro, che poi me lo sarei trovato lì, tutto da fare, in pochissimo tempo. Ma niente, non ho mai imparato. Ecco perchè anche stavolta mi ritrovo nell'anno nuovo a rimandare il post dei miei album preferiti degli ultimi dodici mesi, in attesa di completare almeno una mezza dozzina di recensioni a chiosa del 2017. No big deal, tanto nessuno tratterrà il fiato nell'attesa. E allora inizio il 2018 rendicontando ciò che mi ha intrattenuto negli ultimi due mesi, in merito a dischi, libri, film e serie tv.

ASCOLTI

JD McPherson - Undivided heart and soul
Old 97's - Graveyard whistling
One Desire - ST
Tyler Childers - Purgatory
El Peyote Asesino - Terraja
Power Trip - Nightmare logic
Warrior Soul - Back on the lash
Electric Wizard - Wizard bloody wizard
Hellbound Glory - Pinball
The Waterboys - Out of all this blue
The Dream Syndicate - How did I find myself here
Prophets of Rage - ST
Iron Maiden - Brave new world
Talking Heads - Sand in the vaseline



LETTURE

L'ABC del linguaggio cinematografico, Arcangelo Mazzoleni
4321, Paul Auster

VISIONI

La metà oscura
Arrivederci amore ciao
Mine
La notte del giudizio
Orizzonti di gloria
Carrie
Machete
Amore tossico
American pastoral
Babbo bastardo 2
Phenomena
Nodo alla gola
La notte dei morti viventi
L'uomo dai pugni di ferro
Snowpiercer
Gli uccelli
Mamma o papà
Le confessioni
Inferno (Dario Argento)
Opera
The founder
Wall Street, Il denaro non dorme mai
La horde


Gomorra - Stagione 3
The Deuce, La via del porno - Stagione uno