Non si è mai fermato un attimo Tom Morello. Probabilmente è più forte di lui, dopo lo split con i Rage Against The Machine (ma sarebbe più corretto dire con De La Rocha), ha continuato a suonare, cercando sempre di coniugare passione per la sei corde e impegno sociale (al netto dell'esperienza mainstream degli Audioslave), a fianco delle classi disagiate dimenticate dal sistema e dalla società: i Nightwatchmen, gli Street Sweeper Social Club, il reunion tour con i RATM, il periodo con Springsteen (2008/2015). Poi ad un certo punto: opzione romantica A) gli è venuta nostalgia della baaanda (cit.), oppure, opzione cinica B) ha realizzato che la grande visibilità l'avrebbe riottenuta solo riprendendo il sound dei RATM. Comunque sia, dato per irrecuperabile il rapporto con lo storico frontman della band (perso non si sa dove e come, con un album solista in cantiere da una quindicina d'anni), Morello rimette insieme la sezione ritmica originale (Commerford al basso e Wilk alla batteria) e per quanto concerne le parti vocali torna alle origini della sua ispirazione, ottenendo l'adesione al nuovo progetto del meglio della old school del rap delle due coste: Chuck D dei Public Enemy (Est) e B-Real dei Cypress Hill (ovest), oltre al contributo alla consolle di DJ Lord. A questo punto mancava solo un monicker efficace, e Prophets of Rage, titolo di una canzone dei Public Enemy dall'epocale It takes a nations of millions to hold us back, sembrava coniato su misura.
Così, dopo un warm up a base di concerti in piccoli clubs e un EP nel quale la band si scaldava con un paio di brani originali e qualche cover dal vivo, ecco giungere il momento del full lenght di debutto.
Pur scontate le debite differenze fra l'impatto di questo sound ad inizio anni novanta e la sua riproposizione oggi e fra la versatilità di Zack e l'impostazione più monocorde dei due sostituti, gli inconsolabili fan dei Rage Against The Machine trovano qui pane per i loro denti: il tipico sound machiniano, qualche anthem da intonare, come la cover suggerisce, col pugno alzato (Unfuck the world; Legalize me; Hail to the chief), ma anche pezzi più ruffiani (Living on the 110), o purissimi funk-rap (Take me higher), sempre all'insegna di liriche pregne di denuncia sociale e opposizione.
Insomma, un disco che compensa bene la scarsa spontaneità con un tiro micidiale, dove l'istinto ad alzare ancora e ancora il volume relega in panchina l'oggettiva distanza critica del recensore. E forse è giusto così.
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