lunedì 30 dicembre 2013

Bill Callahan, Dream river


Metto subito le mani avanti: non ho mai ascoltato una singola canzone degli Smog e nemmeno ero a conoscenza del fatto che il monicker fosse in realtà l'alter ego di un solo artista, Bill Callahan. Altrettanto candidamente ammetto di essere venuto a conoscenza di questo Dream river solo per l'ottima stampa, trasversale ai generi delle varie riviste (cartacee o on line) musicali, che ha ricevuto.
Ormai dovreste averlo capito, non sono uno che ascolta musica complicata, indie o di nicchia. Che si tratti di hard rock, pop, folk o country, mi piacciono le melodie semplici, le aperture vocali, perché no: la cantabilità dei pezzi, gli intrecci armonici e le voci con personalità. Dopo diverse sòle prese nei periodi di acquisti a scatola chiusa, con gli anni e l'esperienza ho capito che mi dovevo tenere alla larga dai titoli pompati all'inverosimile dalla critica più elitaria perché quasi mai facevano scopa con i miei gusti. Ora, per le ragioni di cui sopra, Bill Callahan rispondeva a tutti i criteri per rientrare nel novero dei musicisti che non considero, e invece il suo è l'album che più sto ascoltando in questi giorni freddi e piovosi. 
Perchè la musica è così: per quanto tu ti possa impegnare a stabilire delle regole, lei si diverte a mandarle a fanculo.

Dream river è, da un certo punto di vista, esattamente come te lo aspetti: un lavoro malinconico, autunnale, evocativo. Ma è anche qualcosa di più. "L'artista precedentemente conosciuto come Smog", infatti, pur mantenendo il santino di Nick Drake ben visibile sul cruscotto dell'auto, approccia alla composizione in maniera personale e libera. 
Innanzitutto ha dalla sua una voce che, a differenza del tormentato artista di Bryter Layter, possiede tonalità molto profonde, dalle parti della musica nera (rischio di farla fuori dalla tazza, ma butto lì un Isaac Hayes) o più prosaicamente di Leonard Cohen. L'accompagnamento che fa da cornice ai testi, appena intonati, quasi parlati, è minimale: percussioni, flauto, tastiere, e qualche secchiata di vernice con una chitarra elettrica slabbrata, quasi psichedelica. 
Il risultato è una fotografia a tinte pastello, onirica e cangiante, che scherza con strutture jazz (Seagull) e regala notevoli vette cantautorali (Small plane).

A tratti incantevole. Da ascoltare.

7,5/10

sabato 28 dicembre 2013

MFT, dicembre 2013

ASCOLTI

In questi scampoli di fine anno la mia attenzione è quasi esclusivamente rivolta al riascolto dei dischi che andranno a riempire la tradizionale classifica consuntiva. In linea di massimo i titoli per la top ten sono già assestati (restano da sciogliere giusto un paio di dubbi) ma c'è grande incertezza per le posizioni, data l'eccellente media qualitativa che questo 2013 (mi) ci ha regalato. L'ultima playlist dell'anno registra la presenza di due artisti emergenti in ambito country indipendente (Lindi Ortega e Sturgill Simpson), più l'interessante ritorno di Trent Raznor coi suoi NIN e il suggestivo Dream River di Bill Callahan (Smog). Chiude il cerchio Decade, raccolta di Neil Young che copre il suo primo periodo solista (1968/77), che, per la sfilza di capolavori che mette in fila e per come si raccorda con tutto il nuovo (ennesimo) movimento folk americano, merita l'acquisto anche se si è in possesso dell'opera (quasi) omnia dello Zio Nello. 

Hank III, Brothers of the 4x4
Hank III, A fiendish threat
Caitlin Rose, The stand-in
Nine Inch Nails, Hesitation marks
Austin Lucas, Stay reckless
Pearl Jam, Lightning bolt
Lindi Ortega, Tin star
Sturgill Simpson, High top mountain
Bill Callahan, Dream river
The Temperance Movement, omonimo
Neil Young, Decade



VISIONI


Terminate con la scatola di kleenex a portata di mano le ultimi stagioni di Sons of Anarchy (sesta) e Homeland (terza); quasi finita la prima di The Newsroom e in procinto di iniziare la conclusiva di Dexter.


giovedì 26 dicembre 2013

Xmas Chronicles

Da bambino, benchè volessi solo divertirti in un'atmosfera festosa, lo sentivi a pelle che quando la famiglia tutta si riuniva per gli interminabili pranzi o cenoni delle feste, c'era qualcosa nell'aria pronta a guastare il tuo patinato idillio da pubblicità del Mulino Bianco. 
Da adulto sei parte di questo agente contaminante, perchè non c'è niente da fare, è stato oggetto di studi, libri e film: quando metti intorno ad un tavolo persone unite da legami di sangue ma divise da differenti scelte di vita, personalità e vecchie fratture mal ricomposte, serve giusto un pretesto per far riaffiorare rancori e conti aperti e innestare una lenta ma inarrestabile deflagrazione. 
Attorno alla tavola tutti lavorano per la pace ma sono pronti alla guerra. Lo capisci dagli sguardi, dagli argomenti toccati e in quelli evitati, dalle espressioni dei visi, dal linguaggio non verbale. Come nei momenti che precedono i duelli dentro i film di Sergio Leone ognuno è preparato per il peggio e così quando non succede niente e si arriva alla fine senza morti e feriti, coi figli e i nipoti che, ignari, si coccolano i propri regali, dici a te stesso che è andata, che hai attraversato un campo minato uscendone incolume. 
Ma il compiacimento che ti concedi mentre, in pigiama e pantofole, osservi la Citrosodina sciogliersi nel bicchiere d'acqua s'infrange subito contro la dura realtà. 
Domani, dopodomani e il giorno dopo ancora si torna in scena. 
Non ce la puoi fare.

lunedì 23 dicembre 2013

Saxon, Unplugged and strung up

Dopo aver virato la boa dei trent'anni di carriera e dei venti album pubblicati, l'ultimo dei quali, Sacrifice, uscito ad inizio 2013, i Saxon: "defender of the metal faith"e primi alfieri della nwobhm, si concedono un cadeau, un piccolo lusso superfluo per celebrare la propria storia.
Spesso è stato chiesto alla band di tentare la strada della riproposizione del repertorio insieme ad un orchestra o, al contrario, ma sempre assecondando dinamiche ormai acquisite in ambito rock, quella delle rivisitazioni acustiche dei propri titoli. Ebbene, Byford e Quinn (unici superstiti della formazione originale), in un unico colpo esaudiscono le richieste per entrambi i canoni. E non si limitano a quello.
Unplugged and strung up infatti si divide tra brani riarrangiati con'orchestra, pezzi acustici, ma anche tracce remixate o risuonate (in versione elettrica) per l'occasione.
Il risultato è sicuramente degno d'attenzione, anche per la scelta, azzeccata a mio modo di vedere, di selezionare, tra le quattordici canzoni che compongono la tracklist, molto materiale fuori dalla golden age del gruppo: pezzi molto amati dai fans ma considerati minori dal resto del pubblico. Per fare un esempio, dagli album che formano l'epica trilogia 1980/1981 (Wheels of steel; Strong arm of the law; Denim and leather ) non è estratta traccia alcuna.
L'album è aperto da una versione  remixata di Stallions of the highway, anno domini 1979, proveniente dall'esordio dei Sassoni, tipico sound dell'epoca che per l'occasione indossa il vestito buono facendo un figurone. A seguire una manciata di (cinque) pezzi in versione orchestrale, dai quali emergono una straripante versione di The eagle has landed e un'intensa Call to arms (dal disco omonimo di due anni fa), forse l'interpretazione in cui l'innesto degli archi è più efficace. Nel complesso, la strumentazione aggiuntiva viene usata forse con troppa parsimonia: avendo a disposizione un'intera orchestra, per una volta, avrei osato di più.  Forever free (dall'album omonimo) e Just let me rock (da Crusaders),appositamente  ri-registrate, fanno da cuscinetto al successivo lotto di canzoni acustiche senza regalare particolari emozioni rispetto alle versioni originali.
La conclusiva sezione unplugged comprende invece quattro pezzi: Iron wheels (canzone da centauri che fungerebbe da perfetto commento alle immagini di Sons of Anarchy); Requiem; Frozen Raimbow e l'intensa Coming home.



L'impressione finale è che la band si sia voluta togliere in un colpo solo lo sfizio di rivisitare il proprio sound, ma che l'abbia fatto con poco coraggio e investendoci poca passione. Ognuno dei due lotti principali che compongono Unplugged and strung up avrebbe potuto essere dilatato e approfondito meglio. Così invece abbiamo tra le mani un dischetto divertente ma che nulla aggiunge (ne toglie) all'epopea del combo inglese.



Per i completisti dell'album esiste anche una versione con un cd in più, contenente i maggiori successi dei primi anni dei Saxon.

6,5



sabato 21 dicembre 2013

Chronicles 38

Febbre, influenza, ritorno al lavoro, ricaduta e persistenza di sintomi influenzali. Questa in sommi capi la mia situazione delle ultime due settimane. Ancora oggi il mal di gola si è talmente affezionato a me da non voler lasciarmi. 
Oltre al pessimo bollettino medico, l'altra consuetudine stagionale è la sindrome della tredicesima. Di cosa si tratta? E' presto detto. In corrispondenza dell'unica occasione dell'anno in cui la busta paga è un pò più pesante (nemmeno tantissimo, alla fine) mi capita la spesa imprevista che azzera l'aumento della retribuzione mensile. La ruota della sfiga, a sto giro, si è fermata sull'auto, manifestandosi sotto forma di un guasto all'alimentazione e di un finestrino elettrico che si è bloccato (ovviamente in posizione di aperto). Il preventivo totale si aggira sui cinquecento. 
Ma potrebbe andare peggio. 
Potrebbe piovere. 
Infatti piove, anche dentro la mia macchina.

venerdì 20 dicembre 2013

The Temperance Movement, omonimo


L'unico dubbio riguarda la sincerità dell'operazione. Già perché gli scozzesi The Themperance Movement (ragione sociale presa in prestito da un'associazione di morigerati precursori del proibizionismo vissuti nell'800) presi così sono un'ottima, a tratti esaltante, band di rock anni settanta con decise influenze di musica nera ed efficaicissime divagazioni southern, rhythm and blues, swamp.
Se vi vengono in mente i Black Crowes direi che ci siamo, quella dei fratelli Robinson è sicuramente l'influenza primaria del combo: il tris iniziale di pezzi è in questo senso inequivocabile e nonostante lo stile derivativo non vi è dubbio che Only friend, Ain't no telling e Pride siano tre brani estremamente validi, che non sfigurerebbero affatto  nella magnifica trilogia iniziale di album dei Corvi Neri.
Ma ai ragazzi (o ai loro pigmalioni, chi lo sa...) piacciono anche i Creedence Clerarwater Revival e lo si capisce in maniera evidente da interpretazioni quali Be lucky e Midnight black, che esaltano ancora una volta la voce, perfetta per il genere,ma anche sufficientemente versatile, del cantante Phil Campbell.
Tra incursioni nell'errebì bianco (Take it back) e lunghe ballate elettriche (la conclusiva Serenity) l'album non mostra momenti di cedimento,anzi, tiene botta bene e ci illude che una nuova stella possa essere nata. 
Il dilemma resta, e per un appassionato rock che si sforza di rimanere un pò ingenuo non è elemento da poco: quanta urgenza artistica e quanta programmazione a tavolino ci sono in operazioni come queste? Solo il tempo saprà dirci se i Temperance Momement finiranno nel grosso calderone delle giovani band revivaliste che si afflosciano dopo un paio di dischi o se gli scozzesi raccoglieranno l'eredità dei grandi gruppi dei novanta, oggi un pò col fiatone. 
Solo per questa ragione mi tengo basso con la valutazione, perché per quanto concerne l'assiduità degli ascolti, l'album è invece in altissima rotazione.

7/10

mercoledì 18 dicembre 2013

Mad Men, season 1


Con Mad Men aggiungo un altro tassello a completamento di quel mosaico di grandi serie tv e grandi personaggi che non possono mancare nella videoteca di un serial-alcoholic. Videoteca nella quale Don Draper, interpretato da Jon Hamm,  deve avere un posto di primissimo piano. Bello, affascinante, di successo. Don vive il posto, il tempo e il lavoro tra i più cool del secolo: New York, 1960, pubblicitario per la Sterling Cooper (una delle maggiori agenzie americane).
I neonati anni sessanta rappresenteranno per gli USA  il decennio che probabilmente più di ogni altro stravolgerà costume, politica, arte, cultura, nonchè consumi di massa e  il gruppo di creativi alla SC quest'atmosfera la respira a pieni polmoni senza curarsi di nascondere al mondo la propria posizione di privilegio, anzi sbandierando con orgoglio il proprio ruolo centrale sugli enormi cambiamenti in arrivo.
Il primo episodio è spettacolare. Lo smalto che ricopre la vita e l'attività di Don è qui espresso al massimo del suo accattivante colore, ma già nelle puntate successive, mano a mano che la storia dipanerà le sue matasse, penetreremo, grattandola via un po' per volta, quella superfice di apparente benessere, per scoprire sotto di essa fitti strati di infelicità, turbamenti ed insoddisfazioni radicate praticamente in ogni singolo protagonista di questo spicchio di commedia della vita.
Devo dire che non tutta la stagione (tredici episodi) si mantiene a livelli di eccellenza, in particolare ho notato qualche caduta di tono in alcuni dialoghi e alcune situazioni, ma accantonando per un attimo il protagonista assoluto (Draper) e focalizzandoci ad esempio sull'inquietudine che attanaglia la moglie (Betty / January Jones) o la brama di emergere tipica delle classi più povere, incarnata magistralmente da Peggy Olson/Elizabeth Moss  o anche, e scusate se lascio emergere la parte maschile del recensore, sulla bellezza giunonica di Joan Holloway/Christina Hendricks, direi che il saldo è ampiamente in attivo.
Con tempo e pazienza darò la scalata alle (molte) stagioni successive.

lunedì 16 dicembre 2013

Austin Lucas, Stay Reckless


In Austin Lucas sono riposte molte delle speranze del country indipendente americano. Curioso, vista la storia e l'immagine del ragazzo (in parte riassunte nella mia recensione al suo album precedente), che non essendosi formato a Nashville o a San Antonio ma nell'Europa dell'est e che presentandosi sovrappeso e con lo sguardo smarrito, non potrebbe essere più lontano dall'iconografia classica del country hero. Poco male, anzi, per il sottoscritto, che fugge dai Big Jim con Stetson preconfezionati dell'industria U.S.A., queste anomalie rappresentano valori aggiunti.
Così come è un'anomalia (ed un valore) il fatto che Lucas risponda alle enormi aspettative dell'ambiente country con il suo disco che meno rispetta gli steccati della redneck music. Stay reckless è infatti decisamente più rock-folk oriented di quanto fosse lecito aspettarsi, mentre non ci sono sorprese di sorta in merito alla bravura di Austin come songwriter, che qui viene confermata in tutta la sua versatilità.

L'album è aperto Let me in, un folk-rock arioso che con qualcosina di meno saprebbe di Byrds e con qualcosina di più potrebbe oscillare tra REM e Heartbreakers. Il country elettrico fa capolino nel successivo Alone in Memphis, brano dalle potenzialità commerciali esplosive che purtroppo non delfagreranno appieno fino a quando, ahimè, della canzone non sarà proposta una versione patinata dalla Taylor Swift di turno. Four wheels è una love songs con tutte le parole al posto giusto e un bel violino a fare da fiocco rosso, mentre Small town heart recupera l'energia del classico midtempo rock, con tanto di tastiere a sostenere l'intreccio melodico.
L'album si muove per tutta la sua durata all'interno di una delicata commistione tra i generi da highways americane, mostrando la capacità del musicista nel passare da un canone all'altro, come ben dimostrano il rock di Save it for yourself, Stay reckless e So much more than lonely e l'intimismo di Gift and gamblers e della conclusiva Splinters.

In conclusione una prova che, pur non riuscendo nell'obiettivo di sfondare definitivamente nell'olimpo del real country, conferma il talento di un'artista che, evidentemente, non ha tra le sue priorità quella di essere accondiscendente o prevedibile rispetto alle proprie scelte musicali.
 
7,5/10

giovedì 12 dicembre 2013

Il rosso e il blu


Stavo elaborando questa recensione partendo da una sinossi del film, poi mi sono accorto che di questa pellicola, che mostra in modo (forse un pò troppo) diligente gli esseri umani ai due lati opposti della cattedra, mostrandone limiti, aspettative, ambizioni e delusioni, l'aspetto che alla fine mi ha colpito in maniera fulminante è stato l'interpretazione di Roberto Herlitzka. 
Intendiamoci, il film nel complesso non è sgradevole:  personalmente non ho gradito l'approfondimento di un paio di storylines degli alunni tra il drammatico e il patetico, ma, insomma, la fotografia che viene fuori della scuola pubblica italiana, tra mancanza di strumenti didattici, corpo insegnanti abbandonato a se stesso e svagatezza degli studenti è abbastanza a fuoco, anche se non nuovissima. 
Però, ogni qual volta appare Herlitzka, nei panni di un vecchio professore di storia dell'arte stanco, annoiato, acido, sarcastico e intrattabile, il film svolta. Si sale di livello. Il suo contributo alla pellicola è qualcosa di talmente incantevole e sublime, che ti fa vergognare profondamente di non ricordare il suo viso o il suo nome in produzioni cinematografiche passate e che ti impone l'impegno morale di un recupero.

lunedì 9 dicembre 2013

Hank III, Brothers of the 4 x 4

Sono passati sessantacinque giorni dal primo ottobre, data di pubblicazione di Brothers of the 4x4. In questi tempi di continuo e frenetico turnover di ascolti due mesi abbondanti  di ascolto assiduo rappresentano un lasso di tempo enorme, ma io non ne avrei disdegnato ancora un pò, prima di cimentarmi in questa recensione. Perché Hank Shelton Williams in questi anni è diventato IL mio eroe musicale e il trattamento che riservo ai miei eroi musicali è, storicamente, un approfondimento maniacale, quasi compulsivo, di ogni lavoro che sfornano, a maggior ragione se la loro ultima fatica era stata una mezza delusione.

Da cosa inizio? Beh, innanzitutto questa release va presa come un'arrogante dimostrazione di forza, attraverso la quale il suo autore mette in chiaro la sua capacità di spaziare su ogni singola sfumatura dell'universo country, interpretandola sempre in modo eccellente. Per fare un parallelo, se James Newsted si è sentito in diritto di pubblicare un album dal titolo Heavy Metal Music, H3 avrebbe potuto tranquillamente chiamare questo lavoro Redneck Music, visto che i sedici pezzi (per novanta minuti di durata, distribuiti su due compact disc) che compongono l'opera non si pongono, nel contesto musicale dato, nessun recinto di sottogenere.
Un altro aspetto, ben evidenziato dall'accurata review di Saving country music, è dato da come Williams 3rd abbia orientato i suoi sforzi più sull'aspetto prettamente musicale del progetto piuttosto che sulle liriche. Questa lettura balza all'orecchio già dalla traccia d'apertura Nearly gone, che tende ai nove minuti di durata e che fa della parte strumentale il suo punto di forza, con violino e accordion a trainare un'interminabile giga western che reitera quell' "I don't know", già tormentone del pezzo omonimo, sul debutto Rasin' outlaw del 1999.

Un altro elemento che risulta evidente dall'ascolto dell'opening track e confermata dalle note a corredo del disco, è come Hank continui ad affidarsi a registrazioni domestiche (presso l'Haunted Ranch) che conferiscono una (non esasperata) patina lo-fi al suono dei pezzi, patina che avvolge come una foschia anche tracce dall'altrimenti elevato potenziale commerciale, come l'honky tonk di Hurtin' for certin o il vorticoso country grass della title track. Quello che emerge invece in modo cristallino,  a prescindere dalla qualità delle registrazioni, è invece la bellezza abbagliante di un pezzo come Farthest away, primo lento del disco e prima eccezione alla regola sopra descritta sull'egemonia della parte strumentale rispetto al songwriting. Il tema è quello ampiamente abusato della fine di una relazione, ma proprio per questo è incredibile come l'autore riesca comunque a colpire al cuore l'ascoltatore attraverso l'utilizzo di immagini mai così intime.

Conoscendo l'artista non vi è da sorprendersi se a Farthest away fa seguito il pezzo invece più volgare e greve (ma anche, vivaddio, divertente) dell'album. Parlo di Held up, il cui ritornello ha scandalizzato molti non adepti al culto di Hank 3. E' vero, un passaggio come: "and I love that sweet southern smell of Virginia's vagina" (non credo necessiti di traduzione...) non è il massimo del bon ton, ma voi benpensanti che fate quelle smorfie disgustate con chi pensavate di avere a che fare, Keith Urban?!?

Dal punto di vista delle tematiche, posto che l'argomento principe resta quello dell'insofferenza rispetto a leggi e governi nonchè della vita spericolata, c'è da rilevare più di un'incursione in una sorta di ecologia in salsa western, rappresentato dall'allontanamento da civiltà e tecnologia e dall'avvicinamento a esistenze spartane a stretto contatto con la natura più incontaminata. Vanno in questa direzione due splendide composizioni che arricchiscono lo spettro musicale del disco: Outdoor plan (composta insieme a Eddie Pleasant), introdotta da una tromba che ne impreziosisce la tessitura (e peccato che Hank si sia lasciato sfuggire l'opportunità di un'improvvisazione di questo strumento sulla coda del pezzo, che a mio avviso sarebbe caduta a fagiolo) e, soprattutto, Possum in a tree, la dimostrazione più efficace di quanto questo Williams sappia riproporre magistralmente il canone che ha reso il nonno l'icona country che tuttora continua ad essere.

Tra le altre cose, non ho controllato nel dettaglio, ma sono abbastanza certo del fatto che questo disco contenga anche i pezzi mediamente più lunghi della produzione williamsiana: otto su sedici superano i sei minuti e solo tre restano sotto la soglia dei quattro. Anche questo, al di là di ogni critica (anche giusta) e di ogni polemica, dà la misura dell'incontenibile urgenza espressiva che continua a scuotere Hank: un'urgenza che rappresenta probabilmente l'elemento di maggior fidelizzazione con i suoi fans.

Concludo l'analisi di alcune delle tracce segnalando Ain't broken down, altro lento irresistibile che ha il suo alter ego in Broken boogie, pezzo che ne riprende il tema in salsa veloce, con una coda strumentale sorprendentemente direstraitsiana, e un'irresistibile Toothpickin' (ravanando con lo stuzzicadenti? WTF Hank?!?), che si candida autorevolmente ad essere la Throwing out of the bar degli anni dieci.

In conclusione tiro un sospiro di sollievo per come la carriera dell'outlaw si sia rimessa in carreggiata dopo il mezzo passo falso di Ghost to a ghost (anche se già il suo doppelganger cajun/psichedelico Guttertown lasciava ben sperare) e arrivo a dire che probabilmente Brothers of the 4x4 qualitativamente se la gioca ad armi pari con Damn right rebel proud, album del 2008 di poco inferiore all'epocale Straight to hell. Di più rispetto a quella release ha una migliore media d'eccellenza dei pezzi, in meno i picchi qualitativi che in quel disco erano contenuti, visto che qui manca una Candidate for suicide, una 3 shades of black, una Long hauls & close calls o una P.F.F. (beh, in realtà una P.F.F. c'è: si tratta di Lookey yonder commin', evidente caso di autoplagio, visto l'impiego della stessa struttura musicale e della medesima metrica di quel brano). Si può affermare che Brothers of the 4x4 sia un pò il disco della maturità musicale di Hank, con l'avvertenza che in questo caso non necessariamente maturità coincide con massima espressione artistica. Di certo parliamo di un lavoro nel quale le diverse anime country dell'artista trovano un loro felice equilibrio

Il voto finale è dunque alto, condizionato però da un punto di non irrilevante critica. In questi tempi di downloading selvaggio e illegale non è più accettabile acquistare un prodotto originale dal packaging spartano come quello di BOT4X4, privo com'è di libretto allegato, testi e con le note ridotte al minimo indispensabile. Questo non è spirito punk, mr Williams, ma imperdonabile sciatteria e di certo si sposa male con l'attenzione che normalmente dimostra verso i fans.

8 -




P.S. Non finisce qui. A presto, per la recensione di A fiendish threat, capitolo cowpunk/psychobilly delle nuove avventure di Hank III.


venerdì 6 dicembre 2013

80 minuti di Those Poor Bastards

Sono estremamente orgoglioso di presentare la playlist monografica odierna. Già, perché i Those Poor Bastards non sono esattamente una band facile da riassumere in una manciata di canzoni. Non sono una band facile da nessun punto di vista, per la verità. Capitanati dal prolifico Lonesome Wyatt (protagonista parallelamente di una corposa attività solista e di recente anche scrittore) i TPB inventano il cosiddetto gothic country: redneck music barocca, obliqua e spesso inquietante, assolutamente originale e riconoscibile sin dalle prime note. La band è poco presente in rete: non ha nè un profilo su wikipedia nè un vero e proprio sito (occupa giusto qualche pagina su quello della label Tribulation Recordings). Questo nonostante sia attiva, con sei album e altrettanti EP, da una decina d'anni. 
Per loro parla esclusivamente la musica. E da oggi questa antologia.

1. Glory amen
2. They don't make folks like they used to
3. Swallowed by sin
4. Old pine box
5. Sick & alone
6. Pills I took
7. Fear
8. God damned me
9. Wealth is dead
10. Crooked man
11. He of clooven hoof
12. I walk the line
13. Evil on my mind 
14. The dust storm
15. Behold black sheep
16. This world is evil
17. The accident
18. Stay away fron the forest boy
19. My beautiful knife
20. A curse
21. Family graveyard
22. Chemical church
23. These are hard times

mercoledì 4 dicembre 2013

Movielist #3 (1988/1997)

Eccoci dunque (dopo il primo e il secondo capitolo) al terzo decennio di film della vita. Si va dal 1988 al 1997 e qui la mia fame di cinema si fa insaziabile: tra pellicole recuperate grazie all'introduzione in casa del videoregistratore e frequentazione assiduo-compulsiva delle sale, vedo la media di un film al giorno. Ne consegue che i titoli si moltiplicano e la scelta si fa sempre più ardua, al punto che in molti casi s'imporrebbe l'ex aequo, condizione purtroppo non prevista dalle regole del gioco.

1988
A memoria ricordavo molti più titoli degni di citazione per quest'anno, ma evidentemente sbagliavo. Nella categoria commedia mi sono piaciuti Un pesce di nome Wanda e Piccolo diavolo di Benigni. Verdone rilascia il suo film più amaro: Compagni di scuola. Colors potrebbe essere il solito cliché sulla coppia poliziotto giovane (Sean Penn) e poliziotto anziano (Rober Duvall) ma a mio avviso si spinge oltre e l'olandese Amsterdamned percorre con autorevolezza la via europea al noir. Ma se c'è una ragione per la quale vorrei ancora oggi abbracciare forte Giuseppe Tornatore, beh ecco, risponde al nome di Nuovo Cinema Paradiso.

1989
Il film più citato in quel periodo dalla mia comitiva? Marrakech Express di Salvatores ("erano aaanniii che non mi divertivo così"), e non fosse altro che per questa nota nostalgica si aggiudica il prize dell'anno. Ma non dimentico il Batman di Burton, Fà la cosa giusta di Lee, Drugstore cowboy di Van Sant, l'epocale Harry ti presento Sally, il corrosivo La guerra dei Roses e il piccolo ma affascinante Mystery train.

1990
Quei bravi ragazzi. Con menzione d'onore per Turnè, ancora Salvatores, con dei grandissimi Bentivoglio, Abatantuono e Laura Morante.

1991
Il gioco si fa peso. Pensavo fosse amore e invece era un calesse è un gioiellino delicato, dove Troisi trova un magico, irripetibile equilibrio tra sentimento e commedia. Restando sul fronte italiano, Benigni inventa un character che resterà nella memoria di tutti: Johnny Stecchino. D'oltreoceano arrivano però JFK (Stone); Point Break (Bigelow); Thelma & Louise (R. Scott); e il crudo Whore (di Ken Russell con Theresa Russell). Dall'Irlanda, mio posto dell'anima, Alan Parker ci parla di musica ed emarginazione con The Commitments. A chi va la palma di vincitore? Il silenzio degli innocenti di Demme.

1992
L'esordio,  tra Shakespeare e Fernando Di Leo, di Quentin Tarantino: Le Iene.

1993
Procedendo in ordine alfabetico, già alla lettera C sono colto dall'empasse: 6 Gradi di separazione; America oggi; Buon compleanno Mr Grape; Caro Diario. Non è finita qui: Philadelphia, Shindler's list, Nel nome del padre e Una vita al massimo (sceneggiato da Tarantino, e si vede). Da inguaribile innamorato dei gangster movie, scelgo Carlito's way, con un Al Pacino definitivo.

1994
Ancora Tarantino. Scusate la ripetitività, ma Pulp Fiction non è derogabile. Nemmeno da quel piccolo capolavoro di cinismo,anarchia e cattiveria che risponde al nome di Blown Away, da quella dichiarazione d'amore verso il cinema che è Ed Wood, dal delirio psichedelico di Natural Born Killers (anche qui c'è lo zampino di Quentin) o da Forrest Gump.
 
1995
Altra grande annata per quello che concerne la mia videoteca del cuore. Grandi thriller/noir come Piccoli omicidi tra amici; Cosa fare a Denver quando sei morto; Copycat; Seven e I soliti sospetti. Il film più equilibrato e straziante sulla pena di morte (Dead man walking); uno dei massimi capolavori di Disney/Pixar (Toy Story) e il delizioso Smoke. Ma io sono ancora oggi affascinato dal talento della Bigelow, che con Strange Days ha raggiunto il suo apice visionario e violento.
 
1996
Con Scream Wes Craven rovescia come un calzino tutti i cliché horror, riuscendo incredibilmente a far ridere e terrorizzare a morte. Verdone con Sono pazzo di Iris Blond fa uno dei suoi film più delicati e completi. I Cohen ci danno in pasto il capolavoro Fargo e Cronenberg con Crash continua a vivisezionare il corpo umano per veicolare la propria arte. I tossici scozzesi di Trainspotting lasciano un segno profondo sull'immaginario collettivo e sulla cultura popolare. Ognuno di questi film potrebbe ambire ad essere premiato, però la mia scelta va a Io ballo da sola di Bertolucci per ragioni emotive che per una volta non starò ad approfondire.
 
1997
E' l'anno di Titanic che, comunque la si pensi, è grande cinema. Lo stesso dicasi per Benigni e il suo discusso La vita è bella (film che a scanso di equivoci, ho adorato). Poi Boogie nights; Carne Tremula; Donnie Brasco (l'ultimo grande titolo sulla mafia americana?); Face/Off; il terrificante Funny Games; il Tarantino minore ma per il sottoscritto sempre convincente di Jackie Brown; l'esordio su grande schermo dell'opera di James Ellroy, il mio scrittore preferito, con L.A. Confidential; Will Hunting; gli italiani Ovosodo e In barca a vela contromano. Può sembrare una scelta snob, ma vi prego di credere alla mia integrità di appassionato se metto davanti a tutti  Gattaca e il suo futuro alternativo spietato, credibile e assolutamente realistico.


lunedì 2 dicembre 2013

Joe Buck Yourself, Who dat? (2012)


Escono talmente a fari spenti i dischi di Jim Finkley aka Joe Buck Yourself che il rischio di perderseli è più che elevato. Questo Who dat? per esempio è stato rilasciato alla fine del 2012, proprio quando avevo appena scoperto, e apprezzato, il precedente Piss and vinegar (del 2011), senza che me ne fossi minimamente accorto. 

Rispetto a quel lavoro l'artista del Tennessee modifica in maniera sostanziale il suo approccio alla composizione, non tanto dal punto di vista dello stile, che continua a muoversi dalle parti di un personalissimo psychobilly, ma piuttosto per il raggiungimento di una diversa maturità artistica che gli consente di diminuire un pò la velocità delle esecuzioni e l'asprezza delle tematiche, entrambe fin qui orientate a senso unico verso nichilismo, aggressività e deriva esistenziale. 
Non che quegli spunti, così cari a tutta la scena indipendente che parte dal country per addentrarsi nel territori musicali più paludosi degli stati americani del sud, venga del tutto a mancare: tracce come Hellbound o When evil comes to town sono in questo senso classici wild bites, ma in compenso aumentano i momenti più articolati e meno rabbiosi, come ad esempio l'opener Blood river, la meravigliosa Tango of death, Genocide con il suo controcanto in falsetto  e la title track, probabilmente il pezzo più riuscito del disco, a cavallo com'è tra rockabilly e swing anni cinquanta. Jesus is dead si raccorda invece con la tradizione country grass pre-bellica della canzone religiosa, il tutto ovviamente coniugato con la "sensibilità" di mr. Finkley che non inficia messaggio e risultato, ma che anzi, ne amplifica la valenza.

Who dat? rappresenta un passo importante nella carriera artistica di Joe Buck Yourself, perchè ci dice in maniera esplicita che dietro alle attitudini da bad guy e le oltraggiose pose da punk di questo artista c'è dell'altro. C'è un urgenza comunicativa che non si accontenta (più) di scalciare e sputare ma tenta di catturare l'attenzione dell'ascoltatore attraverso composizioni più mature e accessibili che comunque stanno sempre dentro un perimetro di orgogliosa indipendenza. Un altro tassello di una carriera minore ma all'insegna di un'invidiabile libertà artistica e personale.