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L'attacco è per Halleluiah goat e non aspettavamo altro. Mi butto nella mischia del pogo difendendomi e aggredendo, salto e canto facendo leva con le mani e coi gomiti sulle altrui schiene sudate ma devo guardarmi alle spalle per resistere ad un paio di cariche assassine. Nel marasma generale mi sembra di scorgere uno spettatore vestito da maialino rosa. Eppure non ho assunto sostanze stupefacenti.
Guitar gangster and Cadillac blood viene accolta da un boato, così come Radio girl, ma è con The nameless one che le ugule si scaldano sul serio, per poi buttare il cuore oltre l'ostacolo con l'attesissima Sad man's tongue, anello di congiunzione tra metal e traditional country, non a caso introdotta dalla prima strofa e dal ritornello di Ring of fire di Johnny Cash, offerta in sacrificio al pubblico. A proposito del man in black, vorrei far notare che la metrica del ritornello di Sad man's tongue, nel punto finale in cui fa "Out from a sad man's tongue" si adatta perfettamente a quel "on down to San Antone" che conclude la strofa di Folsom Prison. Vabè, cose mie.
Tornando al pit, ormai nella bolgia ho perso di vista Filippo e un po' temo per la sua incolumità (scherzo, ma nemmeno tanto). Il tizio vestito da maiale rosa esiste veramente, ad un certo punto fa anche stage diving: non oso pensare in che condizioni siano le sue ascelle, sotto tutta quella pelliccia sintetica.
Si capisce che il danese Michael Poulsen,cantante, chitarrista e frontman della band, si senta completamente a suo agio sulle assi del palco. Non si danna granchè, i movimenti sono limitati allo scambio di microfoni con i pards ai suoi lati, ma in compenso sono frequenti gli scambi con il pubblico e in uno di questi prende spunto dalla partita di calcio tra Danimarca e Italia (2 - 2) che si è da poco conclusa, per ribadire che tanto, per i presenti, la vera religione è il metal, non certo il calcio.
La mia scorta di resistenza fisica al pogo si è intanto esaurita ed è tempo che arretri di qualche fila. In una situazione di maggior calma (ma senza smettere di cantare) comincio a guardare la band nel suo complesso, di certo i membri non rispondono a nessun dress-code precostituito: Poulsen è agghindato da cantante country/rock 'n' roll da anni cinquanta; Caggiano,berretto calato in testa, è come se fosse ancora negli Slayer e nel 1987, bassista (altra bella sagoma) e batterista sfoggiano invece look così casual da risultare anonimi.
Dopo il tripudio canterino di Sad man's tongue, un gruppo normale avrebbe campato di rendita per una decina di minuti almeno, infilando magari nella setlist il pezzo più ostico del proprio repertorio. Questi qui invece fanno partire Lola Montez, e anche chi era arretrato per riposare le stanche membra ha uno scatto d'orgoglio ed è lì sotto ad intonare strofe (la prima è ripetuta due volte) e ritornelli. Un trionfo senza mezzi termini. E siamo solo all'inizio dello show. Su Heaven nor hell decido di allontanarmi per vedere come se la passa il Sindaco, strategicamente piazzato lontano dalla ressa, su un piano rialzato posto dal lato opposto del palco. Lo ritrovo gaudente e concentrato sullo show, ma faccio appena in tempo a scambiare con lui uno sguardo di assenso che sento Poulsen annunciare 16 Dollars, uno dei miei pezzi preferiti, e devo riguadagnare una posizione di favore nel pit per godermela congruamente. Non sarà facile ma riuscirò nell'impresa.
La gig si avvia alla breve sosta pre-bis con una versione trascinante di Maybellene I hofteholder, nella quale, ancora una volta, il ruolo del pubblico è determinante. Lo sanno bene i presenti che al momento giusto si esaltano echeggiando come fossero un sol uomo il testo: "Dance forever my only one" con la band che smette per un attimo di suonare per enfatizzare ancora di più il coro.
A questo punto entriamo in una fase del concerto che scoprirò poi essere consuetudine per i Volbeat. Ho denominato questa parte: "cazzeggio da sala prove", in quanto il gruppo si comporta come si fa nei momenti di relax durante le lunghe permanenze negli studi, suonando o semplicemente accennando riff di pezzi altrui. In questo caso la jam è ovviamente un tributo d'amore al metal, in tutte le sue influenze storiche. Il copione prevede che Michael chieda al pubblico quale canzone vorrebbe ascoltare, poi non capisco se la scelta cada o meno su una richiesta reale, ma ecco che parte l'epocale Breaking the law, dei Judas Priest, interpretata fino al chorus. Stessa sorte, ma in misura molto più concisa, spetta poi a Keine lust dei Rammstein, Raining blood degli Slayer (per l'occasione il cantante si infila la maglietta del combo di thrash metal di uno spettatore delle prime file), al riff iniziale di Run to the hills degli Iron Maiden, per concludersi con un accenno ad Evelyn, proveniente dal repertorio Volbeat, e cantata originariamente in stile growling insieme a Mark Greenway dei Napalm Death.
Quando ormai tutti dipendiamo letteralmente da loro, ecco partire la tanto attesa Still counting, vera apoteosi del singalong. I Volbeat sono consapevoli del potere del pezzo e lasciano che sia il pubblico a cantare l'incipit. "Counting all the assholes in the room / Well, I'm definetely not alone...". Appena termina questa parte acustica quasi reggaeggiante, la band prende a picchiare e non vorresti essere in nessuna altra parte al mondo se non lì, a scatenarti, nonostante la drammatica situazione delle tue estremità pilifere, in un liberatorio headbanging e a rischiare felicemente i denti in mezzo a gente che non hai mai visto prima e che, probabilmente, mai rivedrai in futuro.
Arriva la pausa prima dei bis e l'accogliamo tutti con lo stesso sollievo di una pisciata per strada dopo una colossale bevuta di birra. Non credete a quanti urlano "fuori! fuori!", nessuno avrebbe potuto resistere un minuto di più. Quei bastardi dei Volbeat però hanno deciso di massacrarci e perseguono l'obiettivo fino in fondo, tornando quasi subito sul palco. Per fortuna (per quello che mi riguarda) con una doppietta che non mi coinvolge più di tanto: Doc Holliday e Another day another way.
Ma chiaramente non può finire così, e infatti l'attacco di I only wanna be with you (pezzo portato al successo da Dusty Springfield) mi ridona all'istante entusiasmo ed energia, il singalong "oh-oh-oooh-oooh-oh-oh" farebbe ululare di gioia anche i morti e lo stesso vale per il titolo della canzone, che fa da sontuoso cumshot collettivo ad ogni ritornello.
Come un treno merci senza freni arriva anche, in tutta la sua prepotenza, Pool of booze booze booza e miglior suggello alla serata non potrebbe esserci. Beh, in realtà avrei pagato per ascoltare la versione di I'm so lonely I could cry di Hank Williams registrata su Guitar gangster & Cadillac blood, ma si parla di sogni irrealizzabili e quindi sì, nel mondo reale non esiste una chiusura di concerto migliore di questa.
Provando a fare una sintesi seria della setlist, emerge che la band è opportunamente sfuggita alla regola non scritta che prevede d'infarcire la serata di brani dell'ultimissimo album, orientandosi però chiaramente al repertorio più recente, se è vero che ben 14 pezzi sui 19 presentati provengono dagli ultimi tre dischi dei Volbeat.
Dal punto di vista emozionale invece la serata è stata pressochè perfetta, al punto che, invece di andare a casa, avresti voluto caricarti gli amici in macchina per un terzo tempo in qualunque postaccio di strada, a fare l'alba tra chiacchere, vino e cibo scadente.
Sarà per la prossima volta.
N.D.R. : Tutte le foto usate nel post, provengono dal sito soundsblog.it e sono di Paolo Bianco