I Cheap Wine sono il classico esempio di gruppo italiano per il quale il commento più abusato dalla critica è che ha la sfortuna di "essere nato nel posto sbagliato".
Marchigiani di Pesaro, i ragazzi, attivi ormai dal 1997, fanno infatti un rock molto americano, legato all'inizio al cosiddetto Paisley Sound che ha visto nei Dream Syndicate e nei Green on Red (la ragione sociale della band deriva proprio da una traccia contenuta nel loro, seminale, Gravity Talks) gli esponenti di maggior peso del movimento. Poi però allargano i loro orizzonti abbracciando tutto il sound classico dei grandi d'oltreoceano. Riferimenti d'obbligo Bob Dylan, Neil Young, Bruce Springsteen (non nello stile, ma piuttosto in certe magniloquenze).
Come da solida tradizione anglosassone, l'ossatura della band è formata da dua fratelli, Marco (voce e chitarra) e Michele (straordinario talento chitarristico) Diamantini, che nel corso degli anni sono stati coadiuvati sempre dagli stessi collaboratori, fino alla recente rinuncia dello storico drummer e disegnatore di tutti i loro artwork, Francesco Zanotti, sostituito nel 2008 da Alan Giannini.
Al commento iniziale ci sarebbe da aggiungere probabilmente che, oltre ad essere nati nel posto sbagliato per il rock and roll, sono anche nati nel momento sbagliato per suonarlo.
La loro musica è infatti meravigliosamente fuori da ogni moda, non sono, per dire, i Lacuna Coil, che, bravi e scaltri, si sono saputi ritagliare uno spazio nel gothic/pop metal, questi qui davvero suonano cose e temi da dinosauri. Il che, se per me è splendido, non si può dire che lo sia anche per il music buisness. Ma loro giustamente se ne fregano e vanno avanti per la loro strada. Questa è la loro musica, è questo sangue che scorre nelle loro vene. In più di un decennio hanno macinato chilometri e concerti, fino a raggiungere una maturità e un modo di stare sul palco invidiabili per moltissime band italiane.
Personalmente li avevo persi di vista dopo quell'eccellente lavoro (esaurito, di recente in ristampa) che risponde al nome di Ruby Shade, li ritrovo oggi con il nuovo Spirits.
In questa ultima release li ritrovo meno elettrici e meno orientati a veloci fughe chitarristiche e pezzi nervosi, ma più concentrati sulle chitarre acustiche, sul basso usato come contrabbasso, su di una musica che si lancia senza timore verso grandi spazi aperti.
Un sound che vedrei bene come soundtrack di un film ambientato nelle periferie degli stati del sud degli USA, lunghe strade che si percorrono solo per viaggiare, non per giungere a destino.
Affascinanti ballate acustiche suonate sul filo della voce di Marco (Just like animals), nervosi blues (Leave me a drain; The sea is down), brevi strumentali (Alice).
Nella traccia sei (La buveuse) trova collocazione, in maniera spontanea e in giusta misura, anche una tromba.
Spirits contiene inoltre due cover, una di Bob Dylan, Man in a long black coat e Pancho and Lefty, il pezzo più noto (oggetto di attenzione anche da parte di Steve Earle, quest'anno) del compianto Townes Van Zandt, entrambi i brani sono proposti con rispetto, ma in pieno stile Cheap Wine.
Avendo perso degli episodi della discografia del combo, non so se è lecito parlare o meno di disco della maturità. Di certo è una prova ampiamente positiva. E' bello sapere che c'è gente dalle nostre parti che non molla, non si svende e continua a fare ciò che più gli aggrada, in campo artistico. Dell'ottimo folk/rock/blues nel caso specifico dei fratelli Diamantini.