lunedì 29 aprile 2024

Civil war (2024)



Stati Uniti, futuro ipotetico. Impazza la guerra civile, le città sono allo stremo, la violenza dilaga, molti territori sono in mano a milizie auto-organizzate e Washington è sotto attacco. Seguiamo un gruppo di giornalisti e fotografi che decidono di raggiungere una Casa Bianca sotto assedio per un'intervista impossibile al Presidente.


Civil war non è il film che ti aspetti se pensi alle minchiate distopico apocalittiche in cui esplode tutto, caratteristiche di certo cinema hollywoodiano che una volta liquidavamo in una parola: americanata. Civil war non è il film che si aspettavano i fruitori ma-solo-se-danno-il-blockbuster della sala, che, infatti, una volta capita l'antifona (il passaparola tra loro simili) hanno disertato i cinema. No, Civil war non è decisamente il film che ti aspettavi, soprattutto non conoscendo il regista dietro al progetto, quell'Alex Garland che poco tempo fa aveva girato Men, un altro film inaspettato, folle, disturbante e metafisico, a causa del quale le persone scappavano letteralmente dalla sala  e che io, giuro, non per snobismo, ho messo tra i miei preferiti del 2022.

Peraltro, da antitrumpista convinto, devo ammettere di essermi fatto l'idea che Civil war non sia nemmeno quell'attacco diretto al pericoloso complessato (pseudo) miliardario candidato alla presidenza anticipato dai più, ci sono diversi indizi nella sceneggiatura che mi hanno portato a questa conclusione, a partire dalla decisione, che condivido, di non dare troppo spazio alle ragioni per cui alcuni Stati degli USA si sono rivoltati contro il potere centrale (tra l'altro due stati politicamente e sociologicamente agli antipodi come Texas e California), dando il via ad una rivolta che poi si è allargata, e quindi agli errori del presidente che in ogni caso si vede per poche sequenze solo nel prologo e nella conclusione del film.

Il battleground è dunque l'America, ma io, forse a causa di un'età che mi ha portato a vivere con angoscia e in tempo reale la guerra civile dei Balcani, vedendo scorrere le immagini di violenza gratuita, ingiustificata, ottusa e brutale, non ho potuto che fare una connessione immediata con quanto accaduto nell'ex Jugoslavia negli anni novanta. Certo, di molto molto americano c'è il cittadino medio con l'arsenale in casa, una condizione che lo porta ad essere più che pronto, quasi in trepidante attesa del primo conflitto possibile, un contesto che non ha pari in nessun altro Paese occidentale. 

Tuttavia, le torture inflitte dallo stupido hillbilly ad un altro americano come lui solo perchè gli è sempre stato sul cazzo ("al liceo manco mi salutava") o la sequenza più agghiacciante del film (affidata ovviamente a Jesse Plemons, chi altro?) in cui, di nuovo, il cittadino medio assume un potere di vita e di morte cui non è antropologicamente destinato, mi rimanda non ai rischi di una guerra intestina sul suolo americano, ma alle tante realmente avvenute nel passato, su terre a noi vicine (l'ex Jugoslavia, appunto) e lontane (l'Africa, il Sud Est Asiatico).

La regia di Garland è di quelle che ti lasciano immobile sulla poltrona del cinema mentre scorrono i titoli di coda (anche quelli, su un'immagine fissa che lentamente da sfocata diventa nitida, con il sottofondo di Dream baby dream degli immensi Suicide, strepitosi) a domandarti ma che cazzo ho visto. 
La direzione degli attori, l'inserimento in montaggio degli scatti fotografici in bianco e nero in puro stile reportage di guerra, le scene on the road, le inquadrature fisse, sovente più esplicative di lunghe spiegazioni, come ad esempio i primi piani della fotografa veterana Lee Smith (Kirsten Dunst) nel terzo atto del film, efficaci nel farti comprendere come il personaggio abbia raggiunto un livello di saturazione tale da non tollerare più nemmeno un istante di quella professione, di quella vita. 
E a proposito della Dunst, un'attrice che avevo perso di vista, qui ci regala quella che banalmente possiamo definire l'interpretazione della vita, spero della rinascita. Mai sopra le righe, dolente, credibile, cinica in maniera riluttante, in una parola: perfetta.

L'avrei visto subito daccapo.

lunedì 22 aprile 2024

George Simenon, L'uomo che guardava passare i treni (1938)



Kees Popinga, impiegato e contabile di un'azienda navale di Groningen, riceve dal suo datore di lavoro una notizia ferale: la ditta è in bancarotta e il suo capo gli anticipa che si darà alla fuga per godersi i soldi trafugati nel corso degli anni. Lo stesso Popinga, che da contabile non si era mai accorto di nulla, oltre a restare disoccupato rischia di andare a processo, ed è pressochè certo che perderà la sua bella casa, oltre che il rispetto della famiglia. Dopo una notte insonne, l'uomo decide come reagire.


Una volta entrati nella grammatica simenoniana si perde un pò dello stupore delle prime volte (ma non accade anche per altre forme d'arte, la musica soprattutto?), in particolare relativamente alla modernità degli accadimenti dei suoi romanzi: il realismo, la violenza, il desiderio che esplode improvviso, violento, ottuso, inarrestabile. Il caso che cambia le esistenze. E pur tuttavia, anche senza quel fanciullesco senso di sorpresa nel leggere roba di settanta, ottanta anni fa così sovrapponibile ai nostri tempi, resta comunque la spirale irresistibile in cui ti intrappola lo scrittore belga che si conferma comunque fenomenale nella consapevolezza di quali corde toccare, soprattutto nei riguardi del medio borghese e della sua illusione che casa, moglie e figli, essendo i requisiti indispensabili a soddisfare le convenzioni sociali (ora come allora), possano anche dare compiutezza e felicità.

E invece, analogamente al personaggio di Lettera al mio giudice, anche a Kees Popinga, protagonista de L'uomo che guardava passare i treni, accade qualcosa che, imprevedibilmente e in maniera repentina, gli rivoluziona la vita, con effetti che vanno ben oltre la mera causa. Se nell'altro romanzo era la conoscenza di una donna, qui è il fallimento del datore di lavoro di Popinga a provocare un'escalation che salda assieme desideri repressi e fuga, crimini ed ingenuità del grigio impiegato.

I compagni di viaggio che Kees troverà sulla sua strada di fuggiasco e clandestino sono tracciati da Simenon senza una netta dicotomia. Dalla parte dei reietti della società (malviventi, prostitute e imbroglioni) l'ex impiegato trova sia aiuto che fregature, nella polizia che lo insegue più incompetenti che segugi, dalla stampa (come nel caso di Lettera al mio giudice) banalità ed irritanti semplificazioni in merito ai suoi atti.

Fin qui, senza aver mai letto nulla di Maigret, i noir psicologici di Simenon non mi hanno mai deluso ne lasciato indifferente. L'uomo che guardava passare i treni rispetta in pieno la regola.

lunedì 15 aprile 2024

Grian Chatten, Chaos for the fly (2023)

Per quello che mi riguarda, i Fontaines DC hanno rappresentato la novità più interessante nell'ambito del recente panorama musicale internazionale. Considero i tre album fin qui rilasciati (Dogrel, A hero's death e Skinty fia) esempi di una trasversalità musicale non comune e fatico davvero a considerare anche uno solo dei brani ivi contenuti banali filler. Un'onda poderosa insomma, dotata di una forza tale da farmi accantonare un intero movimento (quello metal), che era tornato ad accompagnarmi da lustri, e che mi ha incuriosito al punto da indurmi a scandagliare il vasto panorama del revival post punk (senza peraltro mai riuscire a replicare l'epifania raggiunta con il gruppo irlandese).

Nonostante ciò, a riprova del fatto che sto perdendo colpi, non sapevo che il cantante/frontman della band avesse pubblicato un album solista. Me ne sono accorto solo controllando le liste dei migliori dischi del 2023 delle varie riviste, dove, in qualche caso, veniva citato questo Chaos for the fly. La prima cosa che ho fatto, prima di recuperarlo, è stato cercare informazioni sul futuro dei Fontaines DC e solo dopo le rassicurazioni di rito (sarebbero al lavoro sul successore di Skinty fia) mi sono concentrato sull'ascolto di questo solo project, che deve il suo titolo ad una battuta della Morticia della famiglia Adams: "What's normal for the spider...is chaos for the fly".

Non ho mai capito il senso dei progetti solisti in cui membri di band ancora in attività si prendevano una pausa per... replicare l'identico sound della formazione di provenienza. E guardate che è quasi sempre così. Chatten non lo fa, e già qui ci siamo. Il disco a suo nome è un patchwork straniante di stili e umori che hanno forse come unico denominatore comune un'oscurità e una malinconia di fondo, anche laddove, apparentemente, le atmosfere sono rilassate, quasi spensierate.

L'attacco è per The score, un brano che ci riporta a quel movimento new folk che ha attraversato gli anni zero (Midlake, Fleet Foxes, Grizzly Bear), che non brillava certo per allegria. La combo testo musica è comunque estremamente valida e probabilmente la scelta di aprire il lavoro con un brano così esprime una precisa volontà di imprinting. La successiva Last time every time forever, è forse quella inizialmente più assimilabile alle cose Fontaines DC, ma ecco che quando entra un controcanto femminile la percezione muta radicalmente.

Pochi brani e risulta evidente come l'approccio a queste canzoni da parte di Grian sia crooneristico, da cantante confidenziale, ben lontano quindi dai suoi inizi legittimamente sgraziati e post punk sull'esempio di Ian Curtis. Questa modalità viene esaltata soprattutto in brani dal sapore quasi lounge come Bob's Casino (dove il nostro, novello Dean Martin, ospita la fidanzata Georgie Jesson per un duetto che riporta alla mente i vari che si sono succeduti nel tempo per Somethin' stupid)  nel quale trova spazio anche una tromba che tanto ricorda Herp Alpert. Lo stesso dicasi per un'altra traccia che viaggia leggera sulle stesse ali dell'easy listening anni sessanta: East coast bed.

C'è poi lo skiffle-folk di Salt thowers off a truck e di Fairlies ad intervallare i momenti più introspettivi, perchè, come scrivevo, il disco è pervaso da una sua anima nera, oscura, che emerge quasi a prescindere dalle intenzioni dell'autore e che si nasconde in brani come l'opener o All of the people, I am so far, per poi manifestarsi, bellissima e malinconica, nella conclusione di Season for pain.

Nessun caos qui dentro. Semplicemente un disco che si farà ricordare.


lunedì 8 aprile 2024

Antidisturbios: Unità antisommossa (2020)

Torno dopo tanto tempo a commentare una serie, ma ne vale davvero la pena. Si tratta di Antidisturbios (Unità antisommossa l'aggiunta nella versione italiana), produzione spagnola ideata, scritta e, in parte, girata, da Rodrigo Sorogoyen, regista dietro la mdp per, tra gli altri, gli ottimi film Che dio ci perdoni e Il regno, nonchè del recente As bestas, di cui ho letto un gran bene, ma che non sono riuscito a recuperare su nessuna delle piattaforme a cui sono abbonato.

La vicenda trae spunto dallo sfratto di una palazzina a Madrid occupata da immigrati clandestini e abusivi spagnoli, operazione di polizia attraverso la quale facciamo la conoscenza dei sei "celerini" incaricati dello sgombero. Ecco, il pilota della serie (ognuno dei sei episodi complessivi porta il nome di un character, il primo è Osorio), è girato (da Sorogoyen) in maniera magistrale e totalmente ansiogena, immersiva. Le sequenze dello sfratto, dall'attesa alla fase della trattativa con gli inquilini fino all'azione, ti portano dentro quel complesso residenziale con un'angoscia e una soggettiva non comune, non solo nelle produzioni televisive, ma anche in tanto cinema di genere. Qualcosa di veramente raro ed eclatante. Inevitabilmente nelle puntate successive questo picco qualitativo cala un pò, mantenendo tuttavia un livello più che alto, grazie, soprattutto, alla scelta degli interpreti dell'unità antidisturbios, alle loro facce, tutte credibili e "ordinarie", alla loro fisicità, soprattutto quando è sofferente, e alla bravura degli sceneggiatori, che ti portano a solidarizzare con una squadra della celere spagnola composta da probabili nostalgici franchisti, inconsapevole ingranaggio di una macchina politico-finanziaria molto più reazionaria e spietata di loro.

Protagonista è Laia Urquijo, l'agente degli Affari Interni che indaga sui fatti dello sgombero, interpretata da una convincente Vicky Luengo, che ci restituisce un personaggio idealista, ma al tempo stesso intransigente e disposto a sacrificare ogni cosa per raggiungere i suoi scopi. Dovendo scegliere uno degli attori protagonisti della squadra, Osorio/Hovik Keuchkerian, Diego/il veterano Raùl Arèvalo e Ubeda/Roberto Alamo lasciano il segno. 

La Urquijo e Keuchkerian si ritroveranno come protagonisti in un'altra riuscita produzione spagnola, più orientata al puro intrattenimento di genere: Regina rossa, tratta dai romanzi di Juan Gòmez-Jurado. Magari parlerò anche di questa, ma se avete tempo solo per una serie, non fatevi sfuggire Antidisturbios.

Disney +

giovedì 4 aprile 2024

My Favorite Things, marzo 2024

ASCOLTI

Sierra Ferrell, Trail of flowers
Beyoncè, Cowboy Carter
Cody Jinks, Change the game
Rod Stewart with Jools Holland, Swing fever
The Black Crowes, Happiness bastards
Gossip, Real power
Judas Priest, Invincible shield
The Jesus and Mary Chain, Glasgow eyes
Low Cut Connie, Art dealers
Mick Mars, The other side of Mars
Eric Clapton, Homeboy (OST)
Howard Jones, Human's lib / Dream into action
Cò Sang, Chi more pè me
Michael Jackson, Invincible
Reload, A collection of short stories
Grian Chatten, Chaos for the fly
Herbie Hancock, Head hunters
Michael Jackson, Invincible
Turnpike Troubador, A cat in the rain
Zakk Sabbath, Doomed forever Forever doomed

Mono/Playlist

Depeche mode
Kraut rock


VISIONI

Ai calci di rigore (3/5)
The Caine mutiny court martial (3,5/5)
No blood no tears (3,5/5)
La sala professori (3,75/5)
It comes at night (3,5/5)
Dune - parte due (4/5)
American fiction (3,5/5)
La società della neve (3/5)
Equalizer 3 (2/5)
The haunted - La preda (2,5/5)
Thanksgiving (3/5)
Un altro ferragosto (2,5/5)
Quinto potere (3,75/5)
Totally killer (3/5)
Big bad wolves (3,5/5)
La zona d'interesse (4/5)
The burial - Il caso O'Keefe (2,75/5)
Ogni cosa è illuminata (3,75/5)
50km all'ora (2/5)
Gran Turismo - La storia di un sogno impossibile (2,5/5)
May December (3,5/5)
L'assoluzione (1981) (2,75/5)

in grassetto i film visti in sala

Visioni seriali

Una famiglia quasi perfetta (2,75/5)
Regina rossa (3,5/5) 



LETTURE

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me




lunedì 1 aprile 2024

Depeche Mode - Milano, 28/03/2024

foto adnkronos https://www.adnkronos.com/spettacoli/depeche-mode-conquistano-milano_2RdzeZ4GaemOfNOKP0OooJ

Osservo il grande palco prima dell'inizio del set e noto la totale assenza di strumenti, al netto di tre postazioni, una di batteria e due di tastiere/sintetizzatori. Il resto è tutto spazio libero che Gahan si prenderà da consumato entertainer. 

Mancavo i Depeche Mode in concerto da oltre un quarto di secolo, era il settembre del 1998 per il tour che accompagnava la pubblicazione dell'antologia The singles 86-98. Fu un concerto estremamente piacevole, anche perchè, in assenza di brani inediti da promuovere, la band si concentrò esclusivamente su vecchi classici e recenti hit già assimilate.

A distanza, appunto, di oltre cinque lustri, molto è cambiato. Su tutto ovviamente la prematura scomparsa del membro fondatore Andy Fletcher. Ma molto è rimasto uguale a sè stesso. Giurerei ad esempio che Gahan, dalle scarpe bianche al gilet, passando per la giacca, abbia indossato nei dettagli lo stesso outfit del '98. 
Tornando seri, a non essere cambiata, se non in meglio, è la voce del frontman dei DM, potente, pulita e profonda, a dimostrazione di una vita ora condotta nel segno della corretta condotta salutistica e del professionismo.

Dopo un canonico, breve set di apertura dei Deeper, band di Chicago che viene a dirci quanto la lezione dei Cure sia ancora pedissequamente mandata a memoria dai giovani virgulti, con una puntualità da me sempre apprezzatissima (in quanto forma di rispetto per chi magari è lì dal mattino e poi sotto il palco da ore - non il mio caso che sono col culo sulle poltroncine del secondo anello - ) parte, con uno stage immerso nella penombra, l'open track dell'ultimo Memento mori, il cupissimo industrial-gospel distopico ed evocativo My cosmos is mine. Con la successiva Wagging tongue, sempre dall'ultimo lavoro, si chiude la doppietta iniziale che permette all'ugola di Gahan di raggiungere la giusta fasatura.

Da lì in avanti ci saranno solo altri due brani, sui ventuno complessivamente eseguiti, da Memento mori (Ghosts again e l'ottima Before we drown) e poi via col revival delle musiche più adorate dalle masse (cit.) , da Walking in my shoes alla conclusiva Personal Jesus, in mezzo, tra le altre, Policy of truth, Black celebration (dedicata, forse un pò freddamente, a Fletcher), Enjoy the silence, Stripped, Never let me down again, per una setlist, quella del leg 2024 del tour, sostanzialmente bloccata.

Curiosamente, l'highlight della serata è però uno degli unici due pezzi cantati da Martin Gore, che si è esibito in una versione solo piano (suonato dal tour member, anch'egli ormai storico, Peter Gordeno) e voce di Strangelove. Un'interpretazione che mi ha riempito il cuore di emozione e gli occhi di lacrime. Subito dietro, in ordine di apprezzamento soggettivo, il pezzo che più aspettavo, A pain that I'm used to, una canzone che adoro, regalata in una versione molto più carica e aggressiva dell'originale e peraltro l'unica in cui Gordeno abbandona la confort zone di tasti e pulsanti per imbracciare il basso (strumento assente per il resto del concerto, ovviamente "compensato" dal lavoro di campionamento e sintetizzatori).

Alla fine saranno oltre due ore di show impeccabile, ad alto livello di intrattenimento, anche per la consueta trascinante partecipazione del pubblico, costantemente coinvolto nei cori da Martin e Dave, che in più di un'occasione ha portato l'esibizione dei brani ai "tempi supplementari" trascinando oltre il previsto il sing-along (in un'occasione, per l'assonanza del coro al pezzo dei Doors, Gahan ha accennato a Riders of the storm), al punto da far esclamare a David: "so much better than Torino!", la precedente serata italiana dove, si deduce, evidentemente l'accoglienza è stata meno entusiastica.

Qualche considerazione sparsa tra il personale e lo statistico. I Depeche Mode non sono mai stati un mio riferimento. E pur tuttavia, inevitabilmente, hanno attraversato una parte della mia vita, in particolare i primi novanta (ricordo ancora in quale occasione comprai la MC di Violator) quando produssero due dei dischi, a posteriori, tra i più influenti di sempre: Violator, appunto, e Songs of faith and devotion, un lavoro dal travaglio traumatico e doloroso che però, nel 1993, si guadagnò persino il rispetto del movimento grunge, in quel periodo al massimo della sua radicale espressione. Negli stessi anni arrivò l'ulteriore affermazione grazie alla cover di Personal Jesus di Johnny Cash e il resto, come si dice, è storia.

I DM sono insomma una delle pochissime band nate al tramonto dei settanta, sull'onda di un nascente, grande contenitore musicale comunque collocato nel vasto movimento post punk (l'elettronica e il synth-pop), che più sono progredite ed evolute (quanti gruppi con un pezzo come Just can't get enough sarebbero morti da one-hit-wonder?) e che nel corso del tempo meno hanno toppato le scelte artistiche, al punto che, a memoria, non ricordo un loro album completamente cannato, e anzi. 
Oggi Gahan/Gore sono sì una micidiale macchina da soldi che attraverso le turnè muove masse oceaniche all over the world, ma  con un repertorio ultraquarantennale che ha pochi eguali nell'intero music biz e, come detto, con una progressione continua di musiche e testi tale da far stonare, nel contesto artistico attuale, l'irrinunciabile (per i fans) interpretazione di una canzoncina come Just can't get enough che, rispetto a pezzi moderni quali A pain that I'm used to, Before we drown o Precoius, sembra un'elementare melodia composta da un bimbo con la pianola giocattolo della Bontempi.


foto da rockol: https://www.rockol.it/gallerie-fotografiche/7612/28-marzo-2024-forum-assago-mi-depeche-mode-in-concerto/543750