Per il sottoscritto (stavo per scrivere per quelli della mia generazione, ma non ne sono così sicuro) Oliver Stone è stato il primo regista, tra i contemporanei, di vero culto. Nel periodo che va dal 1986 (Platoon) al 1995 (Nixon) seguivo ogni suo passo artistico, anche grazie a quella che all'epoca mi sembrava (e allora forse lo era) la condivisione di un'aderenza ideale nel perlustrare e mettere in luce gli anfratti più polverosi e celati della controversa storia americana.
Con queste premesse le quasi seicento pagine di Cercando la luce non potevano per me rappresentare un ostacolo, al contrario erano un invito ad una rimpatriata con un vecchio amico, quasi la chiusura di un cerchio, se non il saldo di un debito di riconoscenza.
Mi piace pensare che allo stesso Stone la scrittura sia servita ad una sorta di riconcilio con il suo passato, dato il grande spazio concesso alla narrazione della vita dei suoi genitori (papà militare che durante la seconda guerra mondiale conosce la mamma in Francia), delle loro debolezze, delle assenze, dei tradimenti, fino al divorzio.
Il giovane Stone passa da un'esperienza "estrema" all'altra fino alla svolta di arruolarsi per il Viet-Nam, decisione che, come noto, condizionerà pesantemente la sua vita fino a quando, tornato a casa, non deciderà di tentare, inizialmente come sceneggiatore, la strada del cinema.
Anche qui, molte sono le pagine dedicate ai suoi primi tentativi, fino alle affermazioni degli script di Fuga di mezzanotte, Conan il barbaro e Scarface che fecero di Oliver uno degli sceneggiatori più ricercati di Hollywood, e, pur tuttavia, i soggetti a cui lui più teneva, Platoon e Nato il quattro luglio, restavano imprigionati in un limbo di false speranze e cocenti delusioni in merito alla loro realizzazione, passando da un produttore (sono al vetriolo le parole usate dal regista nei confronti di Dino De Laurentis) all'altro senza riuscire mai a vedere la luce.
Nel frattempo Stone esordisce come regista con l'atipico horror La mano e, soprattutto, inizia il primo dei suoi set realmente pericolosi e avventurosi, rappresentato da Salvador, film che a lungo andare ottiene un buon riscontro.
Finalmente, dopo più di una peripezia, con risorse economiche incerte e più volte sforate, usando un cast di (all'epoca) perlopiù semi-sconosciuti, Oliver riesce a realizzare il suo sogno, ovvero portare sullo schermo, con Platoon, la sua personale esperienza in Viet-Nam, romanzandola e rendendola più brutale nella caratterizzazione di qualche personaggio (il tragico dualismo Dafoe/Berenger) per meglio esprimere la classica dicotomia tra bene e male.
L'ossessione per questo film è il fulcro dell'autobiografia, ma è anche il suo limite. O almeno lo è per me, che cerco, in queste operazioni letterarie, analisi, racconti, storie dietro la realizzazione di opere con cui sono cresciuto, per certi versi mi sono formato. Qui non mancano davvero, ma solo per i primi titoli (l'esperimento di Seizure, La mano, Salvador e, appunto Platoon). Il libro si chiude in quella fase storica, con i successi e gli Oscar, lasciandomi a bocca asciutta per tutto ciò che il regista realizzerà a seguire: Wall Street, Nato il quattro luglio, The Doors, JFK, Nixon, ma anche i "minori" Talk Radio e Tra cielo e terra, il controverso (per le polemiche con Tarantino) e schizoide Natural born killers, il gran colpo di coda di Ogni maledetta domenica.
Ad ogni modo lettura senza dubbio consigliata ai cinefili, nel personale auspicio di un seguito.