La liason del jazz con la musica cosiddetta leggera è solida, antica e strutturata, non inizia certo negli anni ottanta (che però sì, sono il decennio in cui del connubio si è più tristemente abusato) con Miles Davis che rifaceva Human nature e Time after time. A riprova di ciò le cronache ci riportano nei primi settanta un Miles, che al grande successo di massa ha sempre anelato, segnarsi nell'agenda degli impegni una jam con Jimi Hendrix, purtroppo giusto qualche giorno prima che il più grande chitarrista di tutti i tempi trovasse la morte con una modalità così dannatamente idiota. Il disco jazz con i pezzi di Jimi lo realizzerà poi (1974) il pianista Gil Evans assieme ad un'orchestra di venti elementi (qui una mia breve, indegna recensione). Tralasciando peraltro l'intuizione più spettacolare di tutte ad opera di John Coltrane, che da una banale canzoncina da musical ha tirato fuori uno dei pezzi jazz per cui vale la pena vivere, My favorite things.
Perciò, ecco, forse non è più nemmeno il caso di parlare di liason, piuttosto di matrimonio duraturo, e al critico rimane solo da capire se tra i due (generi) si tratti di vero amore o piuttosto di mero interesse.
Brad Mehldau, pianista americano della Florida, che dal 1993 ad oggi ha al suo attivo più di quaranta album (per dire, ha già dato due successori all'album del 2023 oggetto di questa recensione) con il pop e il rock ha sempre limonato, a titolo esemplificativo e non esaustivo basterebbe sfogliare le tracklist dei cinque volumi, distribuiti nel tempo, di The art of the Trio, dove ascoltiamo rapiti esecuzioni che passano da brani di musical, Radiohead, Nick Drake, classici da crooner, fino ai Beatles.
I Beatles, appunto. Dopo quella gemma di Blackbird (The art of the Trio, volume 1 - 1997 - ) che, vabè, è solo il mio pezzo dei fab four preferito di sempre, il buon Brad decide di dedicare un intero lavoro alla musica della mitologica band (giudizio che prescinde dal mio gusto personale).
In una tracklist di undici pezzi, dieci sono dedicati alle composizioni della ditta Lennon McCartney (uno per amore di verità è del solo George Harrison) pescando, con condivisibile saggezza, nel repertorio meno noto dei Beatles, al netto di due pezzi, I saw her standing there e I am the walrus, che comunque definirei mediamente conosciuti. Per il resto, dalla title track a For no one, a Golden slumbers o Maxwell's silver hammer, si naviga nel repertorio più nascosto e raffinato della band, scandagliando soprattutto Revolver (tre brani) e Abbey road (due) che permettono a Mehldau di dipingere i consueti sapienti arazzi armonici, questa volta con sfumature anche blues (Golden slumbers) o boogie/ragtime (I saw her standing there).
Il disco è registrato dal vivo assemblando una serie di serate a Parigi, e si chiude con un pezzo che dei Beatles non è, ma che, porca miseria, risulta il più bello, malinconico e struggente del lotto: Life on Mars? di David Bowie.
Quale che sia il motivo della scelta in controcorrente sulla filosofia dell'operazione, affinità alle melodie beatlesiane o banalmente non voler disperdere un'interpretazione magistrale, una conclusione satura di poesia ed emozione per un disco sicuramente da ascoltare e riascoltare.
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