Questione di karma (2,5/5)
Elvis (3/5)
Arrivati al quarto capitolo della saga, ormai quello creato da Derek Kolstad (soggetto e sceneggiatura) e Chad Stahelski (regia) è diventato a tutti gli effetti un universo a sè. Il John Wick Cinematic Universe. Se nel primo capitolo, un action-noir tetro e dolente, alcuni elementi erano di sfondo, di complemento, rispetto alla furia vendicativa del vedovo inconsolabile, col passare del tempo (e dei sequel) la Gran Tavola e la stratificata rete gerarchico-infrastrutturale del crimine mondiale assume ruolo di primo piano, e con essa i suoi protagonisti, sui quali si erge la maschera mefistofelica di Ian McShane. A titolo personale preferivo le atmosfere notturne dei primi due capitoli, tant'è che il terzo mi ha lasciato un pò meh, il punto tuttavia è che John Wick si guarda come si guarda(va) un porno: la trama è secondaria rispetto alle coreografie (in questo caso di "gun-fu"). E in tal senso, nel quarto capitolo, c'è da godere, dall'esasperazione delle riprese a plongèe, a richiamare vecchi videogiochi (non inedite ma efficacissime) fino alla lunga parte finale a Parigi con l'incredibile battaglia in mezzo al traffico attorno all'Arco di Trionfo e sulla scalinata di Montmartre, la soddisfazione per gli amanti dell'action di qualità è garantita. Il capitolo doveva essere quello conclusivo ma a fronte della colossale risposta del botteghino probabilmente non sarà così. E occhio ai nuovi personaggi Tracker (Shamier Anderson) e Cain (il mitologico Donnie Yen): ognuno di essi si meriterebbe un bello spin-off.
Aleksej Ivànovic, di professione precettore (colui che si occupava dell'educazione e dell'istruzione all'interno delle famiglie nobili), si trova in Germania, in una località, Roulettenburg (il cui nome dice tutto: è infatti un luogo molto apprezzato per il suo casinò), aggregato alla famiglia di un vecchio generale caduto in disgrazia che ha perduto la moglie ed ora si porta dietro, assieme ai figli, una giovane, bellissima e subdola francese. Aleksej si impone, riuscendoci, di stare lontano dal suo vizio del gioco, è innamorato della figlia maggiore del generale, Polina, per la quale farebbe (e fa) qualunque cosa ella chieda, anche derogare dal suo impegno di astenersi dai tavoli da giuoco. La convivenza forzata (dalla necessità) di queste persone, i loro secondi fini, le difficoltà economiche nascoste dietro la patina dell'alto lignaggio, deflagreranno rumorosamente all'inaspettato arrivo dell'anziana madre del generale, la cui morte tutti anelavano, chi per raccoglierne l'eredità chi, di conseguenza, per vedersi saldati i crediti. Anche l'esistenza di Ivànovic sarà stravolta dall'arrivo della dispotica vecchia.
Dopo I fratelli Karamazov e Delitto e castigo, letti più di vent'anni fa, ho finalmente recuperato questo romanzo breve (se paragonato ai due testè citati) di Dostoevskij, considerato un capolavoro della letteratura russa dell'800, scoprendo, contrariamente a quanto pensavo, che tratta solo parzialmente del vizio del gioco, volgendo altresì il suo focus principale verso una società mitteleuropea decadente, rappresentata da personaggi verso i quali si concentra impietosamente la penna di Dostoevskij, non lesinando giudizi aspri che ci riportano alla memoria i tanti luoghi comuni dell'epoca, basati sulla provenienza o dall'etnia dei popoli (il francese, l'inglese, l'ebreo, il russo) che oggi subirebbero senza dubbio l'accusa di non essere politicamente corretti, ma che appaiono funzionali ad una narrazione il cui equilibrio tra dramma e commedia spesso viene spezzato a vantaggio di quest'ultimo genere, risultando, in più di un passaggio, grottesca ed esilarante.