Regolare nelle sue uscite, Steve Earle lo è sempre stato. Ma negli ultimi due decenni non ha davvero perso un colpo, realizzando dieci album, equamente divisi tra gli zero e i dieci.
Per non perdere l'abitudine, il sessantacinquenne artista della Virginia, saluta gli anni venti con un nuovo disco, a soli quattordici mesi di distanza dal precedente tributo a Guy Clark.
Earle, che nella terra delle opportunità e delle contraddizioni ha subito la sua bella dose di ostracismo per essersi sempre apertamente dichiarato socialista, con questo Ghosts of West Virginia ha convintamente sposato la causa di una immane tragedia del lavoro capitata nella miniera di Upper Big Ranch, appunto nel West Virginia, dove, nel 2010, a causa di un crollo, trovarono la morte ventinove tra minatori e operai. Da quella terribile vicenda, rimasta sostanzialmente senza colpevoli, è stata tratta una piece teatrale che deve aver impressionato Steve al punto di amplificarla attraverso una sua nuova produzione che esce durante la sordida presidenza Trump ma che è un pugno in faccia anche ad Obama, visto che all'epoca dei fatti era il presidente in carica.
E probabilmente avere un fil rouge così spesso, intenso e intriso di sangue innocente a collegare i dieci pezzi della tracklist (per ventinove minuti, ecco che torna quel numero tragico) deve aver riportato dentro l'ispirazione di Steve tutto il proprio songbook sociale, sempre orientato a favore delle persone alla deriva, che vivono alla giornata, tra bar, strade e posti di lavoro insalubri e precari.
L'apertura di Ghosts of West Virginia (Heaven ain't goin' nowhere) da subito restituisce all'ascoltatore il senso del dramma, si tratta infatti di un pezzo "a cappella" con un coro che risponde al canto di Earle creando un'immediata empatia con il tema trattato. Il mood del pezzo successivo rompe la tensione dell'opener, ma è solo apparenza, infatti per mezzo di un classico country-blugrass veloce, ancora una volta viene fatta emergere la condizione quasi disperata delle persone a cui è dedicata l'opera, che non hanno nulla se non il Sindacato, Dio e il Paese (Union, God and Country).
L'opera (a tema, ma non concept) è in perfetta continuità con tanta musica americana dedicata ai più disperati e bisognosi, difficile ad esempio pensare che questi Fantasmi della Virginia dell'Ovest, non siano in qualche modo un tributo al Fantasma di Tom Joad di Springsteen (a sua volta ispirato dal romanzo simbolo della Grande Depressione, Furore di John Steinbeck). E se è così ha perfettamente senso filologico la ripresa del personaggio mitologico John Henry, cantato anche da Pete Seeger, e qui ripreso in maniera molto coerente (John Henry was a steel drivin' man).
E' davvero difficile sottrarsi da un'analisi traccia per traccia di questo disco, ogni singola canzone è talmente indispensabile alla sua struttura che si ha paura, non citandola, di far crollare l'insieme. E allora ecco la disperata consapevolezza che non c'è speranza o futuro (Time is never on our side; Black lung) e l'architrave sulla quale si regge tutto l'impianto (non il pezzo migliore, ma il più importante), quel It's about blood, vagamente mellecampiano, che nei suoi ultimi settantacinque secondi mette in fila i nomi di tutti i ventinove martiri del lavoro di questa orribile tragedia, uno dietro l'altro, in un crescendo emotivo vibrante ed emozionante.
A seguire l'unico pezzo non cantato da Earle, ma dalla incantevole voce di Eleanor Whitmore (metà artistica ed affettiva del duo The Mastersons), che accende un riflettore sulle famiglie, le madri e le mogli, che ogni volta in cui i propri cari vanno a lavorare non hanno la certezza di rivederli tornare, attraverso un'interpretazione magica ed un pezzo (If I could see your face again) se vogliamo anche semplice ma struggente da morire.
Gli fa da contraltare il rocchettone Fastest man alive, con un attacco che più Springsteen anni ottanta non si può, per poi concludersi con un altro lento evocativo, The mine.
E' difficile fare una graduatoria dei dischi di Steve Earle, visto che ognuno di essi è un tassello che tiene in vita l'enorme mosaico della old time music americana ed è costruito con coerenza e passione, ma penso di poter dire che con questo Ghosts of West Virginia, l'autore di Guitar town sia tornato a fare quello che dagli ottanta fino ai primi anni del duemila gli riusciva in maniera esemplare, coniugare cioè gli stili più rurali della tradizione con un afflato tipicamente rock , attraverso un equilibrio che trovava il suo senso compiuto dentro liriche dal forte impatto politico e sociale. In questo senso, Ghosts of West Virginia è forse il suo disco di inediti migliore dai tempi di Washington Square Serenade (2007).
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