Washington square serenade è con ogni probabilità il disco che capita nel momento più sereno della vita di Steve Earle.
Lasciato il Tennesse, a pieno titolo incluso nella bible belt che ha sancito la vittoria elettorale di Bush, e trasferitosi a New York City, Steve sembra rinato.
E questo stato d’animo si riflette in pieno nel nuovo lavoro. Anche musicalmente l’artista, pur elaborando un lavoro tipicamente earliano, lo fa con un approccio e alcune sonorità per lui inedite. Per parafrasare un suo testo, si può dire che abbia aperto la porta e lasciato entrare il mondo.
Almeno un terzo del disco è strettamente personale, parla di lui, della sua nuova vita, del suo nuovo amore e del colpo di fulmine per la città dei migranti, New York City.
Tennesse blues apre il cd, una folk ballad malinconica che solo Steve (o Townes Van Zandt, suo cattivo maestro) potrebbe scrivere. E’ l’addio di Earle alla sua terra, destinazione NYC. Senza rimorsi e con qualche rancore. Bello il riferimento alla Guitar Town, sorprendente la dichiarazione “questa non è mai stata casa mia”.
Down Here below è la dedica a New York di cui sopra e ritornello a parte, è uno spoken sullo stile di Warriors, presente sul precedente disco, e dimostra (la prima strofa è letteratura ) come le recenti prove da scrittore abbiano fatto crescere il songwriting di Steve.
Satellite radio si apre su un incedere quasi hip hop, con tanto di effetto vinile rovinato, e ha un ritornello che dal vivo funzionerà alla grande. Il suo appello , (Is there anybody listenin’ to earth tonight on the satellite radio?) è curiosamente vicino a quello del nuovo singolo di Bruce Springsteen, Nowhere radio (is there anybody alive out there?).
City of immigrants è di nuovo un tributo a New York, alle sue culture, alle sue differenze, ai suoi idiomi,alla fabbrica di sogni e delusioni che sa essere. Si adagia su di un tappeto di percussioni tribale, eseguito dal gruppo brasiliano Forro In The Dark, Steve stende un testo meraviglioso, che si conclude con l’ossessivo mantra “siamo tutti immigrati” .
Lasciato il Tennesse, a pieno titolo incluso nella bible belt che ha sancito la vittoria elettorale di Bush, e trasferitosi a New York City, Steve sembra rinato.
E questo stato d’animo si riflette in pieno nel nuovo lavoro. Anche musicalmente l’artista, pur elaborando un lavoro tipicamente earliano, lo fa con un approccio e alcune sonorità per lui inedite. Per parafrasare un suo testo, si può dire che abbia aperto la porta e lasciato entrare il mondo.
Almeno un terzo del disco è strettamente personale, parla di lui, della sua nuova vita, del suo nuovo amore e del colpo di fulmine per la città dei migranti, New York City.
Tennesse blues apre il cd, una folk ballad malinconica che solo Steve (o Townes Van Zandt, suo cattivo maestro) potrebbe scrivere. E’ l’addio di Earle alla sua terra, destinazione NYC. Senza rimorsi e con qualche rancore. Bello il riferimento alla Guitar Town, sorprendente la dichiarazione “questa non è mai stata casa mia”.
Down Here below è la dedica a New York di cui sopra e ritornello a parte, è uno spoken sullo stile di Warriors, presente sul precedente disco, e dimostra (la prima strofa è letteratura ) come le recenti prove da scrittore abbiano fatto crescere il songwriting di Steve.
Satellite radio si apre su un incedere quasi hip hop, con tanto di effetto vinile rovinato, e ha un ritornello che dal vivo funzionerà alla grande. Il suo appello , (Is there anybody listenin’ to earth tonight on the satellite radio?) è curiosamente vicino a quello del nuovo singolo di Bruce Springsteen, Nowhere radio (is there anybody alive out there?).
City of immigrants è di nuovo un tributo a New York, alle sue culture, alle sue differenze, ai suoi idiomi,alla fabbrica di sogni e delusioni che sa essere. Si adagia su di un tappeto di percussioni tribale, eseguito dal gruppo brasiliano Forro In The Dark, Steve stende un testo meraviglioso, che si conclude con l’ossessivo mantra “siamo tutti immigrati” .
E’ questo sicuramente un lavoro che si distacca dai precedenti album politici di Steve.
Gli ultimi due album, Jerusalem e Revolution starts…now infatti, erano straordinarie raccolte di canzoni di denuncia, crude, d’impatto, a volte ironiche, ma sempre estremamente esplicite; erano sale sulle ferite dell’America.
Washington square serenade è ancora un disco politico, ma più trattenuto, introverso, poetico. Meno di denuncia e più di riflessione. Il minimo comun denominatore resta la vena compositiva di Steve, sempre a livelli eccezionali, che lo conferma come uno degli ultimi, grandi autori classici della canzone americana.
Ed è proprio alla grande tradizione delle protest songs americane, oltre che direttamente a Pete Seeger, che Steve fa riferimento con Steve’s hammer. Il martello di John Henry, protagonista di un brano di Seeger appunto, e simbolo delle ingiustizie della classe operaia americana e più in generale delle disuguaglianze sociali, passa idealmente nelle sue mani, “one of this day i’m gonna lay this hammer down” canta Steve, e sembra di vederlo sollevare stancamente questo peso per scagliarlo poi violentemente contro il suo obiettivo, “When there ain’t no hunger And there ain’t no pain Then I won’t have to swing this thing” si affretta ad aggiungere. C’è ancora del lavoro da fare, non si può riposare.
Dopo aver omaggiato lo stile di Tom Waits con Red is the color (chissà se l'artista americano ha mai sentito parlare di Pierangelo Bertoli...) Steve si toglie lo sfizio di eseguire una suo brano, e con Way down in the hole (da Frank’s wild years) chiude questo lavoro che ripaga pienamente le attese (più di tre anni dal precedente) e che segna una svolta nella musica di questo immenso e sottovalutato artista americano.
Probabilmente la musica di Steve Earle è fuori dal tempo, dalle mode, persino dai reflussi delle mode stesse. Forse si fa fatica a classificare le roba che suona, folk, country, rock, blues, anche se in un era in cui (purtroppo) non esistono più i negozi di dischi, in quale scaffale collocare i dischi di Earle dovrebbe essere l’ultimo dei problemi delle major.
Sono convinto che se le radio passassero City of immigrants con un terzo della frequenza con cui ci hanno bombardato i neuroni con l’ultima, irritante, canzone di Irene Grandi, in molti comincerebbero ad apprezzare la classe di questo autore.
Ma forse è giusto così. Ne Steve ne i suoi fans apprezzerebbero una devozione di massa. In fondo in fondo, entrambi ci godono un mondo a fare gli snob.
P.S.
è un pò che lavoravo a questo post, e giuro che è solo una coincidenza se pubblico l'undici settembre una recensione di un disco di Steve Earle...
3 commenti:
uh ma a me il pezzo di Irenuccia piace! muoia sotto a un tram più o meno tutto il mondo è una grande frase! no dai non dire così!
ah il Bianconi Baustelle non sbaglia mai! anche quando fa un pezzo di merda, non sbaglia.
l'idea è quella di preferire Steve Earle a Bruce aka snobbare lo stronzone al forum che vorrà 70 euri in piccionaia e quindi si fotta. mo basta.
l'idea è quella di andare a vedere Steve, e basta, insomma.
oh e derek trucks. se può interessare. ci sarebbe un po' di gente buscaderiana, probabilmente.
come si può perdere derek trucks???
una bella serata come si conviene nel sud degli states e fanculo all'indie di merda.
ti comunico che comunque abbiamo perso il concerto del decennio, i wilco a torino. me lo confermano questi stessi soggetti buscaderiani.
è tutto molto bello.
Mau
steve e bruce in un certo senso
si completano. mr earle poi ha un'ammirazione
sconfinata per broce, non l'ha
bacchettato nemmeno quando sparava
gaffes a garganella dopo l'11/9.
io provo a farmeli entrambi maurì,
è nella mia natura :)
allora a steve saremo in mezzo come samurai nella battaglia.
Mau
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