Magari non ce ne siamo accorti, ma i Pearl Jam, che hanno iniziato quando eravamo giovani, belli e spensierati, trent'anni fa, sono ormai assunti allo status di grande rock band storica, al pari, fatte tutte le differenze stilistiche del caso, di gruppi come gli U2, gli Stones o i Deep Purple.
Ho citato questi artisti, ne avrei potuti elencare molti altri che difficilmente riusciranno più a raggiungere i livelli qualitativi dei loro periodi migliori, ma che ormai hanno un loro brand musicale definito e marcato, e pertanto la differenza in una nuova produzione la fa la capacità di scrivere e suonare brani nuovi che riescano a coniugare l'illustre passato con un'ispirazione convincente. Che ci siano insomma Le Canzoni, anche dentro dinamiche autoreferenziali e, inevitabilmente, visto l'approssimarsi più ai sessanta che ai cinquanta dell'età dei componenti, un pò di mestiere.
E allora vado un pò controcorrente ed affermo che per buona parte di questo Gigaton, uscito a sette anni di distanza dal precedente Lightning bolt, le canzoni ci sono.
Infatti, la prima sezione del disco gliela ammolla, con qualche pezzo che soffia via la polvere dal sound dei nostri attraverso tracce come Who ever said ; Seven o' clock e It's alright, oltre ad una classicissima Quick escape, che potrebbe essere uscita dalle session per No code.
C'è poi il rocchettone Superblood wolfmoon che una volta si sarebbe definito radiofonico, una traccia che riesce nel suo scopo, cioè essere mainstream senza far perdere la dignità al gruppo (non è, per intenderci Get on your boots degli U2) e c'è, soprattutto, Dance of the clairvoyants apprezzatissimo tentativo di far uscire i PJ dalla propria confort zone con una composizione che ha tutto per arrivare, attraverso un'ipotetica macchina del tempo, dalla new wave inglese dei primi ottanta, a partire dallo stile di batteria gate reverbed e dal sintetizzatore, che battezzano i primi istanti della canzone.
Fin qui tutto bene, dunque, poi, inevitabile, arriva il calo, che non sarebbe nemmeno traumatico (un paio di onesti filler: Never destination; Take the long way, una Buckle up sul filo della nostalgia), se non fosse che in coda al disco si entri in zona Vedder, con l'esagerazione di quasi venti minuti (in pratica un terzo della durata complessiva dell'opera) di folk ballad suddivise in tre tracce, che farebbero crollare l'attenzione anche del più bendisposto ascoltatore.
Sarebbe bastato, a mio avviso, sacrificare due di queste canzoni su tre (io avrei lasciato Comes than goes a dispetto di Retrograde e River cross, ma sono gusti) per chiudere la tracklist a dieci pezzi, avere un lavoro più coeso e strutturato, anche nella durata.
In questo modo invece rischia di perdersi anche quanto di buono c'è in un disco sicuramente onesto e decoroso, con più di una traccia che potrebbe davvero funzionare dal vivo, al netto del rinvio dei concerti a causa del covid e del fatto che i fan vogliono sempre ascoltare le canzoni più datate, di quando erano giovani, belli e spensierati.
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