Ultimamente ogni concerto a cui assisto (sempre pochissimi, per la verità) in posizione eretta finisce per lasciarmi con la schiena a pezzi e la medesima considerazione: "sono troppo vecchio per queste cose".
Salvo poi, il giorno seguente, riprendere a sbavare come un adolescente davanti alla pagina dei tour aperta sul pc.
Questa volta, assieme agli amici coetanei (chi più chi meno...) Filippo e Alessandro, si converge al Fabrique di Milano per la seconda visione degli amati Volbeat, sei anni dopo l'esaltante prima al Live Club di Trezzo (qui e qui).
Ormai ho recepito che l'orario di inizio delle gig spacca il secondo e quindi arrivo qualche minuto prima delle sette, giusto in tempo per Danko Jones, che attacca preciso preciso.
Il senso della sua esibizione è racchiuso già nei primi secondi di I gotta rock, estratta dal nuovo Rock supreme: sudore, anthem rock e coinvolgimento del pubblico.
Nonostante un'inquietante somiglianza col comico Cacioppo, il nostro Danko è la perfetta quintessenza del frontman rock, teatrale e ammiccante come da copione, con in più dalla sua una buona dose di simpatia che non non fa mai male.
Purtroppo ha a disposizione solo mezzora, nella quale la band comprime sette pezzi, con le stagionate First date, Had enough e la più recente Little rock and roll sugli scudi.
Pausa per il cambio di palco e per rintracciare i sodali, giusto due chiacchere di rispettivo aggiornamento e si parte con la seconda esibizione, ancora una volta in perfetto orario.
I Baroness, stilisticamente parlando, in una serata da rock ipercalorico un tanto al chilo, rappresentano un pò gli intrusi della serata.
Infatti la band di Savannah, Georgia, si discosta totalmente sia dalla proposta degli opener che da quella degli headliner, con una proposta di alternative metal costruita su lunghe parti strumentali, poche concessioni al singalong e una tecnica individuale decisamente superiore.
Anche dal punto di vista dell'outfit, i Baroness manifestano tutta la loro differenza dalle regole del tipico intrattenitore metal, con il solo leader John Baizley (costantemente impegnato in un rapporto onanistico con la pedaliera), agghindato in stile punk/metal (concordo con l'amico Filo che ha individuato una forte somiglianza con Nick Olivieri), mentre il resto dei presenti sul palco, compresa la bella e brava chitarrista Gina Gleason, avrebbero potuto benissimo essere scambiati per studenti del college impegnati in un saggio di musica.
Non tragga in inganno questa mia descrizione, l'ora di concerto concessa ai quattro musicisti è stata coinvolgente e suggestiva, solo, per quanto mi concerne, con una modalità di partecipazione più estatica che sguaiata.
Una quindicina di pezzi per loro, dalla quale estraggo le mie favorite Throw me an anchor, Shock me, Take my bones away, tutte concentrate nella parte finale del set.
Tra tanti dubbi, qualche luce e più d'una ombra in ambito di nuova release è il momento dei Volbeat, che, dopo la canonica intro dei Motorhead (Born to raise hell) e la nuova intro di Nick Cave (Red right hand) raggiungono le proprie posizioni sullo stage.
Si inizia male, con un pezzo debole e di certo non in possesso del tiro necessario per aprire un concerto dei Volbeat, vale a dire The everlasting, tratto, ovviamente, dall'ultima fatica Rewind, Replay, Rebound.
Poi ci si risolleva un pò (Pelvis on fire, Doc Holliday, Lola Montez, Sad man's tongue) , pur tuttavia senza che il modo di stare sul palco di Poulsen riesca ad accendermi, troppo troppo "da compitino": freddo, distaccato e privo di entusiasmo. Lo stesso Caggiano, quasi completamente immobile, è difficile da ricondurre alle origini, che erano quelle dei palchi incendiati dal thrash-metal con i mitologici Anthrax, sebbene del periodo anni zero.
Con Danko Jones su Black rose
Ovviamente è un problema solo mio, che ricordo ben altro rapporto col pubblico nel concerto di sei anni fa, perchè invece i convenuti non si fanno menate e sembrano divertirsi.
Il meglio, ca va sans dire, arriva in coda, con alcuni pezzi finalmente incendiari che, nonostante il mal di schiena, mi spingo anche ad accompagnare con qualche timido e sgraziato saltello (Seal the deal, The devil's bleeding crown; Pool of booze, Die to live, Still counting).
Con uno spaesato figlio di Caggiano
I Volbeat mi lasciano insomma una sgradevole sensazione di esibizione formale, priva di autentici picchi di entusiasmo o di quel coinvolgimento emotivo (anche il sing-along di Ring of fire ad introdurre Sad man's tongue mi è apparso quasi dovuto, controvoglia) attraverso il quale i bravi performer riescono a fare credere al pubblico di ogni location di aver costruito con loro un rapporto unico, irripetibile e privilegiato.
Saluti e baci
Resta il piacere sempre autentico di aver rivisto gli amici Filo e, più fugacemente, Ale, coi quali ci si incontrerà sicuramente al prossimo concerto (ma non dei Volbeat), perchè, passato il mal di schiena, è un attimo ricominciare a credersi sedicenne.