Durante la sua più che cinquantennale carriera, Bruce Springsteen si è differenziato da molti dei suoi colleghi per la pervicace ricerca di una relazione col suo pubblico che andasse oltre una, seppur coinvolgente, esecuzione di brani dal vivo.
Chi, in epoca analogica, si è consumato le orecchie su bootleg che fino alla metà degli ottanta erano l'unica testimonianza dell'attività live dell'artista del New Jersey, è ampiamente abituato ai lunghi spoken che facevano da prologo alle canzoni, o ne costituivano un propellente integrato alla composizione originaria.
Più tardi se ne trova testimonianza anche sui live ufficiali, a partire dal mitologico Live 1975 - 1985, con l'introduzione a The river imperniata sull'adolescenza di Bruce, sul rapporto con la musica e con il padre.
Ma è stato, a mio avviso, con il tour del 1988, quello partito a seguito della pubblicazione di Tunnel of love, che un Bruce maturo, desideroso di affrancarsi dall'immagine preconfezionata di blu collar rocker, si spinge ancora più in là, cercando di trasmettere ai propri fans un messaggio di collettività, di famiglia, di crescita, attraverso un momento del concerto nel quale Bruce e Clarence Clemons, seduti su una panchina al centro del palco, discutevano del passato e del futuro, con un passaggio sui figli di Big Man (Springsteen sarebbe diventato padre da lì a poco).
Dal 1988 inizia per il boss una lunga iato dall'attività pubblica, nella quale, pur non smettendo mai di scrivere e registrare, si occupa della sua vita privata, e della nascita dei figli, concedendosi delle rare occasioni pubbliche usate come road test delle nuove composizioni.
In questo senso, la partecipazione allo show benefico Christic Institue Benefits è entrata nella memoria collettiva di tanti fan. Per la prima volta (ricordiamoci che Nebraska, disco in solitaria del 1980, non ebbe alcun tour a supporto) uno Springsteen dimesso e quasi introverso, si presenta da solo davanti ad un pubblico affamato della sua energia, chiedendo di non fare chiasso e di non accompagnare la sua esibizione con cori o urla, per poi mettere in fila una trentina di canzoni tra classici e (allora) inediti.
Bruce voleva esprimere, senza giri di parole, un cambiamento nel suo modo di comunicare: dove c'era adrenalina, festa e sudore voleva ricreare empatia e profondità. Difficile, quando sei una rockstar planetaria, ma non impossibile se hai quel tipo di feroce determinazione.
Negli anni a venire questo desiderio di Springsteen si è riaffacciato ad intermittenza, penso ai tour di The ghost of Tom Joad o a quello, per me ancora più intenso, di Devils and dust, senza che i semi di questa urgenza smettessero di germogliare, accompagnando il trascorrere degli anni.
All'inizio del 2017 il Boss dà alle stampe la propria autobiografia (ne ho parlato qui), ma la sua urgenza comunicativa non è evidentemente soddisfatta, se qualche mese dopo, il 12 ottobre, Bruce si imbarca, per la prima volta, in uno spettacolo a Broadway, nel quale la parte dedicata allo storytelling ha lo stesso spazio, se non addirittura superiore, a quella dedicata alle canzoni. Per i più pignoli e completisti è bene ricordare che già nel 2005, nell'ambito di un programma della rete VH1, Springsteen fece un'operazione analoga, anche se più breve e meno intima e personale. Qui invece l'artista riprende i passi principali della sua autobiografia, partendo dalla sua infanzia e dal rapporto con le due comunità (irlandese e italiana) dei suoi genitori e toccando cronologicamente i punti seminali della sua vita e della sua carriera.
Nel piccolo Walter Kerr Theatre (meno di mille posti) il pubblico ci mette un pò ad entrare nel mood dello spettacolo, le variazioni di tono di Bruce non sempre vengono colte, ma quando l'esibizione entra nel vivo si crea anche la giusta sintonia, e con essa i momenti di ilarità e di commozione.
Lo stesso Springsteen appare meno disinvolto di quando esegue i suoi canonici concerti, anche se, probabilmente, questa sorta di timidezza diventa un valore aggiunto, dovendo giudicare la sincerità dell'operazione.
Nelle oltre due ore di esibizione trovano spazio i ricordi di infanzia, i luoghi dell'anima, la moglie Patti, che lo accompagna per qualche brano.
Bruce si accompagna alternando chitarra, armonica e pianoforte, riuscendo ogni volta a far vibrare le vecchie assi del palcoscenico.
La parte emotivamente più intensa è senza dubbio quella in cui Springsteen, rievocando uno degli ultimi momenti col padre, non riesce ad impedire agli occhi di riempirsi di lacrime.
La scaletta prettamente musicale ripercorre la carriera di Springsteen, ma per fortuna non è un greatest hits. Infatti, accanto a classiconi quali Thunder road, Born to run, The promise land, Dancing in the dark o Born in the USA, trovano spazio piccole gemme che rispondono ai titoli di My father's house, The wish oltre ad una canzone che considero tra le migliori in assoluto di Bruce (pur appartenendo al repertorio dei novanta) e che ogni volta mi infonde dolcezza e malinconia: Long time comin'.
Dentro questo spettacolo imperfetto vive la quintessenza della magia di Bruce Springsteen, un uomo e un artista che ha fatto di integrità e di onestà intellettuale le proprie bandiere. Che magari si è lasciato sedurre dal narcisismo tra un trapianto di capelli e un botulino, ma che non ha mai perso quello sguardo di entusiasmo infantile negli occhi, quel rapporto con i fans, quell'esigenza di trasmettere il vero. Sarà anche per questo che lo show, dal mese di programmazione inizialmente previsto, è andato avanti per oltre un anno e 236 repliche.
Insomma, quest'uomo qui, che a settembre compirà settant'anni, sembra avere ancora molte cose da dire e diverse modalità comunicative per farlo.