Non è certo da oggi che la Svezia, accantonati gli Abba, si è piazzata al centro della mappa del panorama metal mondiale. Tuttavia negli ultimi lustri il Paese della socialdemocrazia sta sfornando, al pari, c'è da sottolinearlo, del resto della Scandinavia, artisti, band e progetti a getto continuo.
Ma se la Norvegia continua a spiccare per il metal "marcio", in Svezia, a fronte di un'offerta ad ampio spettro di sottogeneri, la specializzazione sembra essere più quella del death melodico e del glam/AOR. Ed è proprio di quest'ultime particolari forme di rock melodico che fanno parte gli H.E.A.T., band che esordisce nel 2008 andando ad ingrossare la già cospicua corrente svedese di "hair" (volendo citare qualche nome, anche limitandoci agli ultimi anni, l'elenco non potrà che essere arrotondato per difetto: Hardcore Superstar; Backyard Babies; Treat; Crashdiet; Poodles; Crazy Lixx; Eclipse...) e che in pochi anni, in virtù di una produzione ispirata e ruffiana, ma mai stucchevole, ha convinto una fascia sempre più ampia di fan, vecchi e giovani, appassionati di hair-metal.
Questo Into the great unknown esce nel 2017 dopo che l'esistenza stessa del gruppo ha rischiato di essere messa in seria discussione a causa della fuoriuscita del chitarrista e compositore Eric Rivers, in line-up fin dagli esordi. Invece gli H.E.A.T. riescono a restare in carreggiata e producono un full lenght che, pur cominciando a mostrare aspetti più pop oriented nell'offerta musicale, fa segnare anche una positiva, differente consapevolezza compositiva, accompagnata comunque da una manciata di brani spacca culi in classico stile arena rock. Vanno indubbiamente catalogati sotto questa definizione Bastard of society; Shit city; Best of the broken e Eye of the storm, ma con un minimo di apertura mentale non si possono disprezzare nemmeno le variazioni sul tema rappresentate da Redefined o la ottantiana Time is on our side.
Insomma, c'è di che tenere alta la gloria del metallo educato.
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