giovedì 12 aprile 2018

Greta Van Fleet, From the fires (2017)

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Magari noi dinosauri dobbiamo cominciare un pò a fregarcene e a lasciarci andare. 
La prima volta che ascolti pezzi come Safari song, Flower power o ancora Highway tune rischi di andare fuori strada con l'auto per il dubbio lacerante che esistano al mondo degli inediti dei Led Zeppelin di cui non avevi conoscenza.
Poi approfondisci un pò la materia e scopri che le composizioni sono frutto del lavoro di una manciata di virgulti del Michigan, attivi dal 2012, che, miracolosamente, si sono infilati in un solco più frequentato del Grande Raccordo Anulare a Roma, riuscendo a dire qualcosa di più credibile di molti altri che li hanno preceduti.
Ma, e qui subentra il pessimismo di noi vecchi marpioni, un attimo dopo essere trasecolati cominciamo a pensare alle tante giovani band di retro rock che dopo un esordio sfavillante hanno perso completamente ispirazione e bandolo della matassa, e con questo pensiero emerge automaticamente anche il dubbio sull'autenticità dell'operazione.
Anche perchè From the fires, il full lenght di soli trentadue minuti dei Greta Van Fleet (ecco, non avevo ancora citato il nome del gruppo) altro non è che la versione leggermente espansa di un EP (Black smoke rising) uscito qualche mese prima, rispetto al quale sono presenti solo due ulteriori inediti e due cover (Meet on the ledge dei Fairport Convention e A change is gonna come di Sam Cooke, che per me è sacra e inviolabile). Pertanto, il dubbio che la lancetta del serbatoio dei giovinastri cominci già a puntare sulla riserva viene spontaneo.
Ma forse noi siamo delle persone orribili che non hanno fiducia nelle capacità delle nuove promesse del ruokk e perciò, per una volta, fermiamo la macchina masturbatoria mentale e valutiamo il disco per come suona e per le sensazioni che ci comunica. 
In questo caso il giudizio non può che essere estremamente lusinghiero.

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