Ho sempre pensato che metal e country abbiano moltissimi elementi in comune. Temi ricorrenti nelle lyrics, il disprezzo totale da parte dei non adepti al genere, un grandissimo seguito di pubblico, innumerevoli ramificazioni stilistiche e sottogeneri. E, ultimo ma non ultimo, una proliferazione senza paragoni di artisti che quotidianamente cercano di uscire dai garage (o dai granai) per tentare di affermarsi con la propria musica. Sono così tanti, che, anche seguendo siti e riviste specializzate, non si riesce a stargli dietro.
Può capitare dunque di farsi sfuggire uno come Eric Strickland, che, dopo svariate esperienze musicali (contemplanti anche southern e rock and roll), nel 2012 corona il suo sogno di incidere un disco traditional country e consegna al pubblico un lavoro dal titolo inequivocabilmente programmatico: Honky tonk till I die.
E inequivocabili sono anche i contenuti della sua musica, con la traccia che dà il titolo al disco che si candida come irresistibile manifesto del genere, ribelle e outlaw.
Il ragazzo di Four Oaks, North Carolina mostra senza riserve il suo amore per i classici che hanno via via definito le coordinate del country, tenendo mi sembra in grande considerazione il lavoro di Hank Williams Jr. Quindi slide guitars e basso a pompare sangue e ritmo alle composizioni, tanto orgoglio, sentimentalismo quanto basta e l'immancabile tributo agli american country heroes, vale a dire i truckers (18 Wheels of hell on the highway). Non posso poi esimermi dal citare The day the truckers shut this country down, esercizio stilistico sull'inconfondibile boom chicka a boom di Johnny Cash.
Un più che incoraggiante esordio dunque, al quale Strickland ha dato, nel lustro dal 2013 al 2017, tre seguiti dei quali, prima o poi, dovrò occuparmi.
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