Che bello non avere più niente da dimostrare a nessuno, e dopo aver riaccarezzato il suono che ti ha reso uno dei riferimenti del folk rock moderno (con Modern blues, di due anni fa), infischiarsene della critica e realizzare nientedimeno che un doppio CD (disponibile anche in versione tripla) di ventitrè tracce, musicalmente orientato ad un pop colto, raffinato ed elegante.
Si dice che Mike Scott stia attraversando una fase estremamente felice della sua vita personale, che sia innamorato (e che l'amata sia di origini giapponesi, come si evince dal breve skit al termine di Didn't we walk on water e dal titolo della traccia numero diciannove: Rokudenashiko, oltre che da altri riferimenti a luoghi del Giappone), in armonia col mondo, prolifico come non mai, etc. etc. .
Viene da crederci, perchè i pezzi contenuti in questo Out of all this blue (titolo più programmatico che mai) , a partire dall'opener Do we choose who we love, sono la migliore cartina tornasole possibile, così fitti di cori, controcanti, tastiere vintage e dotati di una modalità espressiva di Mike al tempo stesso classica e innovativa.
Ovvio che dentro un'opera molto vasta, che contiene così tanta roba e le influenze più diverse, sia inevitabile assistere a cali di tensione, ma per quello che mi riguarda due terzi abbondanti delle composizioni presenti sono da celebrare con assoluto favore e reverenza.
Oltre alla già segnalata traccia d'apertura, pezzi come If I was your boyfriend, la divertentissima If the answer is yeah, The Connemara fox, ma in generale tutta la prima parte dell'album, fanno sembrare semplice l'esercizio più difficile di tutti: la ricerca di una melodia catchy che non sia scontata e banale. Tolto qualche filler (Girl in kayak; Skyclad lad; Rokudenashiko), anche il secondo CD si mantiene su livelli più che buoni, con l'impennata di una Nashville, Tennesse, che rimette in pista il sound dei "vecchi" Waterboys e una Didn't we walk on water, che soffia via la polvere dal sound degli Style Council.
Out of all this blue ha ottenuto in rete più stroncature che elogi, probabilmente sono io ad essere sordo, perchè penso invece che con il quattordicesimo lavoro di Scott (tra band e uscite soliste), ci troviamo di fronte ad un'opera che delinea la sua meravigliosa dimensione proprio nell'essere fuori dalla canonica tazza di tè del suo autore. Un disco insomma imprevedibile, spiazzante e personalissimo: più dalle parti di Dan Auerbach che da quelle dei Chieftains.
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