Anche se i lettori di questo spazio sono pochi intimi, e pertanto l'esercizio di scrittura dovrebbe essere scevro da ogni pressione, a volte vengo assalito dall'ansia da prestazione. Scrivere de Il Teatro degli Orrori per esempio mi mette soggezione. Probabilmente perchè fin qui tutti gli album del gruppo, ad eccezione dell'esordio, non recensito, si sono piazzati in cima alle mie scelte dell'anno. Conseguentemente, al momento di trovare le parole per descrivere i contenuti dei nuovi lavori della band le dita sulla tastiera si fanno pesanti e le sinapsi mentali faticano a scattare.
Tuttavia, ad oltre tre mesi dall'uscita del nuovo disco, è arrivato il momento di provarci.
Il primo elemento che emerge dagli ascolti dell'album eponimo dei TdO è il netto allontanamento dalle atmosfere più cupe e rarefatte che avevano caratterizzato il mood de Il mondo nuovo (e di Obtorto collo, il debutto solista di Capovilla) e il ritorno alla cazzimma più esplosiva degli esordi. In pratica i TdO tornano a pestare giù duro, e per non lasciare spazi a ripensamenti, lo fanno in pratica dalla prima all'ultima traccia. L'altra innovazione riguarda l'ingresso in formazione stabile di Kole Laca, che attraverso il suo lavoro alle tastiere porta un contributo elettronico alla cifra stilistica della band.
Detto delle novità che caratterizzano il lavoro, la filosofia dell'album risponde invece alle tradizioni consolidate del brand Teatro degli Orrori, imperniato dunque sulle liriche del frontman, all'assalto frontale di tutti gli aspetti più controversi della società: dalla politica, al ruolo delle multinazionali, all'ipocrisia dei rapporti interpersonali a quel putrido stagno che è diventato il mondo del lavoro.
D'altro canto, con un inizio come Disinteressati e indifferenti non c'è pericolo di essere fraintesi: l'obiettivo agganciato dai radar delle liriche è quello di un'ampia fascia di giovani moderni, disillusi e nichilisti, ed è centrato in pieno con risultati deflagranti. Insomma, il Capovilla è tornato, e il suo classico stile tra cantato di pancia e passaggi declamati in stile uomo col megafano non fà sconti ne prigionieri.
Così Lavorare stanca mina le certezze sulla cosiddetta dignità del lavorare, soprattutto in considerazione (aggiungo io) delle perdute certezze in merito a diritti e tutele a causa delle leggi introdotte negli ultimi anni di governo di centrosinistra. E allora ben venga uno dei pezzi migliori dell'album, quel Il lungo sonno (lettera aperta al Partito Democratico) che ognuno di noi delusi della politica di sinistra avrebbe voluto scrivere. I versi della canzone ("aspettando che cambiasse il mondo (...) sono cambiato io, e adesso sono di destra") con i riferimenti agli slogan del Piddì ("i diritti dei lavoratori, quelli delle donne, la lotta di classe, cuore di ogni progresso / la fedeltà alle idee, i valori della costituzione / una società più giusta e uguale / non me ne frega più niente / è tutta un'illusione, una beffa, una pantomima") rappresenta come meglio non si potrebbe il pensiero di chi vede, nell'opera del più grande Partito di centrosinistra italiano, la realizzazione di buona parte dei programmi della destra.
Benzodiazepina, non fosse per l'inequivocabile differenza di atmosfere e periodo storico, sarebbe la degna conclusione di una traiettoria che Renato Carosone aveva tracciato già dai primi anni cinquanta col geniale boogie Piagliate 'na pastiglia e che Capovilla conclude mettendo insieme i mostruosi interessi delle grandi compagnie farmaceutiche e la conclamata ipocondria dell'italico popolo, consumatore seriale di medicinali.
Convincente anche Sentimenti inconfessabili, nella quale Capovilla sogna il proprio funerale accompagnato dalle ipocrisie tipiche di quelle situazioni, raggiungendo, con i suoi strali, anche il giornalista musicale Federico Guglielmi. Attacco dal mio punto di vista incomprensibile, vista la coerenza della persona, ma che d'altro canto pone Guglielmi nella ristretta cerchia dei giornalisti immortalati dalla musica leggera, anche se, bisogna ammetterlo, non siamo dalle parti del capolavoro L'avvelenata, dove Guccini si scagliava (tra gli altri) contro Bertoncelli.
Certo, l'album non è esattamente un lavoro che scivola via leggero o che si possa ascoltare in sottofondo mentre si fanno i mestieri di casa. E' piuttosto un monolite che reclama piena attenzione e volumi adeguati dell'impianto stereo. L'atteggiamento fuckin' hostile di Pierpaolo rende l'avanzare nell'ascolto simile alla perlustrazione di una foresta la cui vegetazione si fa passo dopo passo sempre più fitta di rovi e rami che ti graffiano la faccia, le braccia e le gambe. E a poco serve il tentativo di maggior leggerezza lasciato alla conclusiva Una giornata al sole (che sembra in tutta onestà una outtake della roba solista di Capovilla).
Il Teatro degli Orrori si sono trovati ad un bivio decisivo della propria carriera, e in questi casi tornare alle origini è sì una scelta scontata ma anche fitta di pericoli. E così il risultato finale dell'album numero quattro della discografia della band sacrifica sull'altare della veemenza sonora il magico equilibrio che ci aveva fatto gridare al miracolo con Dell'impero delle tenebre e A sangue freddo.
Si tratta, intendiamoci, di un peccato veniale, di un sacrificio che ci consente di avere ancora tra noi una delle formazioni più eccitanti e necessarie di questi interminabili tempi oscuri.