Ashes and fire
(Pax Am / Capitol Records) 2011
Ogni tanto fa bene ricordarsi che per alcune opere non basta un'ascoltata frettolosa e via. Alcuni dischi, anche nell'era del digitale e del tuttosubito, hanno bisogno di sedimentare, di essere degustati a sorsate lente, per far emergere tutto il loro sapore dolce e il retrogusto amaro in fondo alla gola.
Fa bene ricordarlo perchè la voracità musicale incontrollata rischierebbe di farsi sfuggire piccoli gioielli intimisti come Ashes and fire, che sono concepiti giustappunto per uscire alla distanza.
Fa bene ricordarlo perchè la voracità musicale incontrollata rischierebbe di farsi sfuggire piccoli gioielli intimisti come Ashes and fire, che sono concepiti giustappunto per uscire alla distanza.
Certo, nulla di nuovo sotto il sole di Ryan Adams, umorale genietto di Jacksonville, NC, qui alla sua tredicesima uscita in undici anni di carriera solista (senza contare dunque i lavori con i Whiskeytown), un ritorno semmai alle atmosfere languide ed introspettive di Love is hell e ad un buon stato di ispirazione, dopo che l'anno scorso l'autore si era tolto pure lo sfizio di pubblicare Orion, un album di rumorosissimo (e francamente evitabile) indie-metal.
Gli undici pezzi contenuti in Ashes and fire sono invece inni alla malinconia e alla dolcezza, tributi al cantautorato folk dei settanta ed ai suoi autori, da Joni Mitchell a James Taylor, anche se sarebbe ingeneroso non ricordare che questo stile qui caratterizza ormai da tempo il personale brand artistico di Ryan.
L'inizio del disco è una trepida brezza primaverile che accarezza l'anima, Dirty rain, Ashes and fire e Come home lasciano il segno con un abbraccio nel quale ci si perde morbidamente. Più avanti colpiscono in profondità anche la dolcissima Do i wait, mentre Chains of love roccheggia sugli U2 di The joushua tree e Save me è sublime nella sua dolorosa esortazione. Lucky you, che ha qualcosa di Springsteen, è il singolo che ha anticipato la release, ma malgrado sia in teoria il pezzo più commerciale è piazzato in fondo alla tracklist proprio prima dell'ultima canzone: I love you but i don't know what to say, che, manco a dirlo, è un'altra perla della raccolta, forse addirittura la più preziosa di tutte.
Se per le torrenziali uscite di Ryan Adams valesse la regola di quelle di Neil Young, cioè un disco di valore ogni uno-due buttati un pò lì, rassicuro tutti: questo giro è quello dannatamente buono.
1 commento:
Ed ha pure una bella copertina che ricorda Apocalypse Now...
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