C'mon (Sub Pop, 2011)
Dopo tanti consigli inascoltati, nel 2005 ero finalmente riuscito ad apprezzare i Low con The great destroyer, un disco che però mi dicevano essere un anomalia nella produzione del trio di Duluth, Minnesota (tranquilli, non lo ricordo chi è altro ci è nato in quell'amena località) in quanto molto rock oriented rispetto alla tradizione della band.
Dopo essermi preso un'altra pausa dalle loro produzioni (nel 2007 ho ignorato l'uscita di Drums and guns), circostanze poco interessanti ai fini della recensione mi hanno portato sulle tracce della loro ultima opera, C'mon.
Dico subito che, pur essendo la cifra stilistica lontana dalla vivacità elettrica di The Great Destroyer, il primo impatto è stato ammaliante. L'album si apre infatti con Try to sleep, un pezzo onirico dall'ampio respiro, che trascina con dolcezza, contraddistinto da uno di quei refrain che ti elevano lo spirito. Aiuta probabilmente, nell'immedesimazione con il testo (Try to sleep/Don't look at the camera/Try to sleep/But then you never wake up) la mia condizione psicofisica attuale, che mi vede anelare un pò di riposo per quietare una spossatezza che sta diventando pericolosamente strutturale. Tornando al disco. Qualche traccia ed è chiaro che la strada percorsa dalla band è quella dei pezzi dilatati e armoniosi, lenti e pregnanti. Prendiamo Witches ad esempio, che è sostenuta da un suono chitarristico elettrico-ma-acustico che rimanda immediatamente a Neil Young. Una distorsione che lotta per imporsi sul cantato di Alan Sparhawk, mentre si ode in lontananza, come un eco sommessa, un delicato ricamo di banjo. Especially me è invece cantata da Mimi Parker, componente femminile del trio, e si muove agile su suggestioni west coast folk dei sessanta/settanta.
Dopo essermi preso un'altra pausa dalle loro produzioni (nel 2007 ho ignorato l'uscita di Drums and guns), circostanze poco interessanti ai fini della recensione mi hanno portato sulle tracce della loro ultima opera, C'mon.
Dico subito che, pur essendo la cifra stilistica lontana dalla vivacità elettrica di The Great Destroyer, il primo impatto è stato ammaliante. L'album si apre infatti con Try to sleep, un pezzo onirico dall'ampio respiro, che trascina con dolcezza, contraddistinto da uno di quei refrain che ti elevano lo spirito. Aiuta probabilmente, nell'immedesimazione con il testo (Try to sleep/Don't look at the camera/Try to sleep/But then you never wake up) la mia condizione psicofisica attuale, che mi vede anelare un pò di riposo per quietare una spossatezza che sta diventando pericolosamente strutturale. Tornando al disco. Qualche traccia ed è chiaro che la strada percorsa dalla band è quella dei pezzi dilatati e armoniosi, lenti e pregnanti. Prendiamo Witches ad esempio, che è sostenuta da un suono chitarristico elettrico-ma-acustico che rimanda immediatamente a Neil Young. Una distorsione che lotta per imporsi sul cantato di Alan Sparhawk, mentre si ode in lontananza, come un eco sommessa, un delicato ricamo di banjo. Especially me è invece cantata da Mimi Parker, componente femminile del trio, e si muove agile su suggestioni west coast folk dei sessanta/settanta.
Onestamente è molto difficile trovare un opera sviluppata su canoni introspettivi che non perda coesione e coinvolga con continuità l'ascoltatore, senza annoiarlo. L'obiettivo in questo caso è raggiunto grazie anche ad un cambio di marcia finale che intorbida le placide acque, con la lunga Nothing but heart (è ancora lo zio Neil a echeggiare) e lo spensierato pop-folk di Something's turning over.
Fin troppo facile definirlo un lavoro autunnale, da tepore domestico e pioggia che picchia sui vetri delle finestre (o sul parabrezza dell'auto, normalmente la mia condizione d'ascolto).
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