Big Country, Steeltown
Ai miei inizi, quando ho scoperto (grazie al film Streets of fire, ma questa è un'altra storia) il rocherroll, cominciavo a cercare artisti che suonassero quella roba lì, operazione non semplice, visto che si era in pieni anni ottanta, e temo che andasse molto qualcosa che chiamavano new romantic, il pop elettronico e dj television.
Non avendo internet, e potendomi permettere al massimo un disco al mese, cercavo sulle riviste musicali ( tra le prime acquistate Tutto e Rockstar) consigli e inidicazioni che m'ispirassero. Tra le mie amicizie, l'unico che avertisse l'insorgere di questa malattia, era il Ronda, che però, già da prima dell'impazzimento delle ragazzine, aveva individuato nei Duran Duran i suoi preferiti.
Io ricordo che andavo per tentativi, senza riuscire a trovare ciò che mi soddisfasse. Sarebbe bastato che qualcuno mi parlasse dei Blasters, e probabilmente sarei stato a posto anni, visto che quello era esattamente il sound che volevo ascoltare. Invece, vabbeh, vagavo confuso tra il Bowie appannato di Tonight e i Toto strafatti di Isolation,senza trovare soddisfazione.
Steeltown, secondo lavoro degli scozzesi Big Country, che avevano debuttato l'anno prima con l'ottimo The crossing, è stato disco del mese di Rockstar, ad un certo punto dell'84. Non ricordo granchè di quella recensione, la mia attenzione era concentrata sulla copertina, ne ero letteralmente affascinato, e lo sono tutt'ora. Inutile dire che il mio unico acquisto di quel mese è stato proprio quello.
Anche il primo impatto con la musica è stato travolgente. Il loro rock cercava di coniugare la tradizione anglosassone con un certo spirito punk, cosa che ormai si stava sviluppando nel regno unito anche attraverso altri gruppi, ma , a differenza degli altri, loro non usavano gli strumenti tradizionali (cornamuse, flauti, violini), ma replicavano quel suono utilizzando la chitarra elettrica.
Beh, mi rendo conto che detta così, oggi può sembrare tremendamente kitsch, invece il loro sound era potente e drammatico e i testi, spesso incentrati su tematiche sociali (erano gli anni della stramaledetta Thatcher), efficaci ed intensi.
Il lato A del disco conteneva almeno tre capolavori, Flame of the west, East of Eden e Where the rose is sown. A chiudere la facciata un'altro masterpiece: Come back to me una ballata anomala, che si sviluppa struggente sopra una batteria ossessiva che sembra una triste litania militare.
Il lato B è all'altezza delle gemme che lo precedono. Le ultime tre del lotto, Rain dance, Great divde e Just a shadow conducono la puntina a fine corsa lasciando una sensazione di stupore (almeno per me è stato così) nell'ascoltatore.
Il gruppo si era formato in Scozia, anche se a ben vedere, nessuno dei quattro membri (Stuart Adamson, voce, chitarre, tastiere; Bruce Watson, chitarre, mandolino, sitar; Toni Butler, basso; Mark Brzezicki, batteria e percussioni) era nato in quella terra.
I Big Country hanno ballato per poche stagioni.
Il loro sound, così caratteristico, è stato alla fine anche il loro limite, e quando hanno provato ad aggiornarlo, si sono inevitabilmente omologati a decine di altri gruppi, magari anche più originali, e si sono persi. Probabilmente oggi giustificherebbero la loro esistenza con incessanti tour, a suonare sempre le stesse 15-20 canzoni estratte sopratutto dai primi due-tre lavori, non fosse che a fine 2001, l'indiscusso leader della band, nonchè voce e chitarra solista, Stuart Adamson, ci avesse lasciato, in un contesto mai chiaritio ( suicidio o soffocamento accidentale indotto dall'abuso di alcol?) in un hotel a Honolulu.
Il consiglio, come sempre,e sapendo che non stiamo parlando di fuoriclasse definitivi ma di grandi gregari, è quello di dargli una chance, anche se postuma.