sabato 30 novembre 2013

Chronicles 37

Soltanto un anno fa lasciavo deflagrare liberamente la mia gioia, alla notizia delle dimissioni da presidente del consiglio di Berlusconi. Oggi nemmeno una riga di commento a fronte di un evento molto più rilevante: la sua decadenza da senatore. A cosa si deve questa indifferenza? Beh, innanzitutto ad un generale allontanamento dai temi della politica. Chi segue questo blog da un pò di tempo sa che i primi anni il post d'attualità politica periodicamente saltava fuori, ma da quando quella che dovrebbe essere la mia rappresentanza in parlamento ha deciso di stupirmi con colpi di scena ed effetti speciali, i miei idealismi sono andati a farsi benedire e con essi ogni ispirazione a scrivere. 
E il cavaliere, anche lui fonte inesauribile di ispirazione? Vale il discorso testè fatto. Oltre alla considerazione che questo ventennio abbia indubbiamente logorato fino allo sfinimento noi e non lui, unita alla certezza che comunque non ce lo siamo definitivamente tolti dalle palle. 
Resta la speranza che, senza l'immunità parlamentare, magari un bel giorno prenda armi, bagagli e olgettine e se ne vada in un paese tropicale dove non ci siano accordi di estradizione. Non Hammamet però, che porta male.

venerdì 29 novembre 2013

MFT, novembre 2013

MUSICA

Austin LucasStay Reckless
Hank III, Brothers of the 4x4
Hank III, A fiendish threat
Pearl Jam, Lighting bolt
Jonathan Wilson, Fanfare
Calibro 35, Traditori di tutti
Motorhead, Aftershock
Nine Inch Nails, Hesitation marks
Joe Buck, Who dat?
Omar Soulyman, Wenu wenu
The Bastard Suns, Here comes the suns
Saxon, Unplugged and strong up
Zac Brown Band, 80 minuti

VISIONI

Homeland, terza stagione
Sons of Anarchy, sesta
The newsroom, prima
The walking dead, quarta







mercoledì 27 novembre 2013

Breaking Bad, final season

 
Quanti piccoli Walter White albergano in ognuno di noi? Quanta insoddisfazione coviamo mentre svolgiamo diligentemente un lavoro che detestiamo? Quanta frustrazione alimentiamo quotidianamente nel vedere persone completamente prive di talento raggiungere invece fama e successo?  Quanto siamo persuasi che sia solo la sfortuna ad averci impedito di raggiungere, meritatamente, quei successi? Che, anzi, quei successi fossero nostri di diritto?  
All'inizio di Breaking Bad Walter White (quello originale) è un uomo esattamente così. Ci viene presentato come una persona dimessa, umile, posata. Fa il professore in una high school che s'intuisce non essere prestigiosissima, ma per mantenere moglie, figlio adolescente disabile e nuovo nascituro in arrivo, al pomeriggio si presta al secondo lavoro in un autolavaggio, dove gli tocca, a volte, subire l'umiliazione di lucidare l'auto sportiva ai suoi alunni benestanti. Il rapporto con la consorte Skyler è entrato in quella routine che conosciamo bene. La presenza dell'altro diventa una confortante abitudine. Si prepara la cena, si parla del tempo, si va a dormire. I rapporti sessuali sono ormai rari, fugaci e quasi distratti.
Fin qui White è uno di noi. Perché a cinquant'anni è tempo di accantonare i sogni di gioventù e badare al sodo. Al sostentamento dei propri cari. Al loro futuro.
 
Poi la storia cambia (per fortuna, sennò sai che palle un serial pari pari sulla tua vita). A Walter viene diagnosticato un cancro ai polmoni, il che, nella società americana, significa due cose: 1) senza un'adeguata (cioè costosissima) assicurazione sanitaria non avere accesso alle opportune cure 2) lasciare questa valle di lacrime con la tua famiglia indebitata fino al collo.
E allora ecco che la terribile malattia fa da innesco, gira l'interruttore, attiva la parola in codice che risveglia la cellula dormiente che albergava dentro il protagonista. Ecco che, prima in maniera maldestra, poi sempre più autorevolmente, l'imbranato ma geniale professore di chimica fa venire fuori il suo (a tratti) mostruoso alter-ego. Lo fa sfogare fino a giungere a veri e propri deliri di onnipotenza. Fino a prendersi tutte le rivincite della vita e anche oltre. Per cinque stagioni questo moderno Mr. Hyde s'infuria con la moglie perché non capisce come la sua opera sia unicamente orientata a garantire il benessere della famiglia.
 
Solo alla fine, prima di attuare il suo ultimo piano suicida , davanti ad una Skyler quasi avvizzita, letteralmente consumata dai tremendi eventi che l'hanno travolta, confessa, in quell'impeto di sincerità proprio dei condannati a morte, la verità che fino a quel momento aveva negato anche a se stesso: ha fatto tutto per se stesso. Ha sempre fatto tutto per se stesso. Perché gli piaceva. Perché era dannatamente bravo in quello che faceva. Perché si era finalmente realizzato in un'impresa talmente grande da fare spavento.
E in ultima analisi viene da chiedersi se, negli ultimi istanti della sua vita, W.W. abbia trovato più conforto nell'ultima, sofferta carezza sul viso della figlia addormentata nella culla oppure nello sfiorare (accarezzare...) uno dei suoi strumenti, all'interno di un laboratorio clandestino di meths, mentre le sirene in sottofondo annunciavano l'arrivo della polizia. Le stesse sirene che, facendo da prologo al primo episodio, sancivano la morte simbolica del vecchio professore di chimica salutando la progressiva ascesa del nuovo re del crimine, ne accompagnano dunque l'ultima azione.
Folle e lucidissima. Fredda e passionale. Crudele e compassionevole.
Proprio come Walter White.

lunedì 25 novembre 2013

Volbeat live, Trezzo sull'Adda (MI), 11/10/2013 (2/2)




link alla prima parte del post


L'attacco è per Halleluiah goat e non aspettavamo altro. Mi butto nella mischia del pogo difendendomi e aggredendo, salto e canto facendo leva con le mani e coi gomiti sulle altrui schiene sudate ma devo guardarmi alle spalle per resistere ad un paio di cariche assassine. Nel marasma generale mi sembra di scorgere uno spettatore vestito da maialino rosa. Eppure non ho assunto sostanze stupefacenti.
Guitar gangster and Cadillac blood viene accolta da un boato, così come Radio girl, ma è con The nameless one che le ugule si scaldano sul serio, per poi buttare il cuore oltre l'ostacolo con l'attesissima Sad man's tongue, anello di congiunzione tra metal e traditional country, non a caso introdotta dalla prima strofa e dal ritornello di Ring of fire di Johnny Cash, offerta in sacrificio al pubblico. A proposito del man in black, vorrei far notare che la metrica del ritornello di Sad man's tongue, nel punto finale in cui fa "Out from a sad man's tongue" si adatta perfettamente a quel "on down to San Antone" che conclude la strofa di Folsom Prison. Vabè, cose mie.

Tornando al pit, ormai nella bolgia ho perso di vista Filippo e un po' temo per la sua incolumità (scherzo, ma nemmeno tanto). Il tizio vestito da maiale rosa esiste veramente, ad un certo punto fa anche stage diving: non oso pensare in che condizioni siano le sue ascelle, sotto tutta quella pelliccia sintetica.

Si capisce che il danese Michael Poulsen,cantante, chitarrista e frontman della band, si senta completamente a suo agio sulle assi del palco. Non si danna granchè, i movimenti sono limitati allo scambio di microfoni con i pards ai suoi lati, ma in compenso sono frequenti gli scambi con il pubblico e  in uno di questi prende spunto dalla partita di calcio tra Danimarca e Italia (2 - 2) che si è da poco conclusa, per ribadire che tanto, per i presenti, la vera religione è il metal, non certo il calcio.

Michael Poulsen Volbeat concerto @ Live Club Trezzo Milano, 11 Ottobre 2013 - Foto by Paolo Bianco

La mia scorta di resistenza fisica al pogo si è intanto esaurita ed è tempo che arretri di qualche fila. In una situazione di maggior calma (ma senza smettere di cantare) comincio a guardare la band nel suo complesso, di certo i membri non rispondono a nessun dress-code precostituito: Poulsen è agghindato da cantante country/rock 'n' roll da anni cinquanta; Caggiano,berretto calato in testa, è come se fosse ancora negli Slayer e nel 1987, bassista (altra bella sagoma) e batterista sfoggiano invece look così casual da risultare anonimi.

                     

Dopo il tripudio canterino di Sad man's tongue, un gruppo normale avrebbe campato di rendita per una decina di minuti almeno, infilando magari nella setlist il pezzo più ostico del proprio repertorio. Questi qui invece fanno partire Lola Montez, e anche chi era arretrato per riposare le stanche membra ha uno scatto d'orgoglio ed è lì sotto ad intonare strofe (la prima è ripetuta due volte) e ritornelli. Un trionfo senza mezzi termini. E siamo solo all'inizio dello show. Su Heaven nor hell decido di allontanarmi per vedere come se la passa il Sindaco, strategicamente piazzato lontano dalla ressa, su un piano rialzato posto dal lato opposto del palco. Lo ritrovo gaudente e concentrato sullo show, ma faccio appena in tempo a scambiare con lui uno sguardo di assenso che sento Poulsen annunciare 16 Dollars, uno dei miei pezzi preferiti, e devo riguadagnare una posizione di favore nel pit per godermela congruamente. Non sarà facile ma riuscirò nell'impresa.
La gig si avvia alla breve sosta pre-bis con una versione trascinante di Maybellene I hofteholder, nella quale, ancora una volta, il ruolo del pubblico è determinante. Lo sanno bene i presenti che al momento giusto si esaltano echeggiando come fossero un sol uomo il testo: "Dance forever my only one" con la band che smette per un attimo di suonare per enfatizzare ancora di più il coro.

A questo punto entriamo in una fase del concerto che scoprirò poi essere consuetudine per i Volbeat. Ho denominato questa parte: "cazzeggio da sala prove", in quanto il gruppo si comporta come si fa nei momenti di relax durante le lunghe permanenze negli studi, suonando o semplicemente accennando riff di pezzi altrui. In questo caso la jam è ovviamente un tributo d'amore al metal, in tutte le sue influenze storiche. Il copione prevede che Michael chieda al pubblico quale canzone vorrebbe ascoltare, poi non capisco se la scelta cada o meno su una richiesta reale, ma  ecco che parte l'epocale Breaking the law, dei Judas Priest, interpretata fino al chorus. Stessa sorte, ma in misura molto più concisa, spetta poi a Keine lust dei Rammstein, Raining blood degli Slayer (per l'occasione il cantante si infila la maglietta del combo di thrash metal di uno spettatore delle prime file), al riff iniziale di Run to the hills degli Iron Maiden, per concludersi con un accenno ad Evelyn, proveniente dal repertorio Volbeat, e cantata originariamente in stile growling insieme a Mark Greenway dei Napalm Death.


Quando ormai tutti dipendiamo letteralmente da loro, ecco partire la tanto attesa Still counting, vera apoteosi del singalong. I Volbeat sono consapevoli del potere del pezzo e lasciano che sia il pubblico a cantare  l'incipit. "Counting all the assholes in the room / Well, I'm definetely not alone...". Appena termina questa parte acustica quasi reggaeggiante, la band prende a picchiare e non vorresti essere in nessuna altra parte al mondo se non lì, a scatenarti, nonostante la drammatica situazione delle tue estremità pilifere, in un liberatorio headbanging e a rischiare felicemente i denti in mezzo a gente che non hai mai visto prima e che, probabilmente, mai rivedrai in futuro. 

Arriva la pausa prima dei bis e l'accogliamo tutti con lo stesso sollievo di una pisciata per strada dopo una colossale bevuta di birra. Non credete a quanti urlano "fuori! fuori!", nessuno avrebbe potuto resistere un minuto di più. Quei bastardi dei Volbeat però hanno deciso di massacrarci e perseguono l'obiettivo fino in fondo, tornando quasi subito sul palco. Per fortuna (per quello che mi riguarda) con una doppietta che non mi coinvolge più di tanto: Doc Holliday e Another day another way. 
Ma chiaramente non può finire così, e infatti l'attacco di I only wanna be with you (pezzo portato al successo da Dusty Springfield) mi ridona all'istante entusiasmo ed energia, il singalong "oh-oh-oooh-oooh-oh-oh" farebbe ululare di gioia anche i morti e lo stesso vale per il titolo della canzone, che fa da sontuoso cumshot collettivo ad ogni ritornello. 
Come un treno merci senza freni arriva anche, in tutta la sua prepotenza, Pool of booze booze booza e miglior suggello alla serata non potrebbe esserci. Beh, in realtà avrei pagato per ascoltare la versione di I'm so lonely I could cry di Hank Williams registrata su Guitar gangster & Cadillac blood, ma si parla di sogni irrealizzabili e quindi sì, nel mondo reale non esiste una chiusura di concerto migliore di questa.

Provando a fare una sintesi seria della setlist, emerge che la band è opportunamente sfuggita alla regola non scritta che prevede d'infarcire la serata di brani dell'ultimissimo album, orientandosi però chiaramente al repertorio più recente, se è vero che ben 14 pezzi sui 19 presentati provengono dagli ultimi tre dischi dei Volbeat. 

Dal punto di vista emozionale invece la serata è stata pressochè perfetta, al punto che, invece di andare a casa, avresti voluto caricarti gli amici in macchina per un terzo tempo in qualunque postaccio di strada, a fare l'alba tra chiacchere, vino e cibo scadente. 
Sarà per la prossima volta.


N.D.R. : Tutte le foto usate nel post, provengono dal sito soundsblog.it e sono di Paolo Bianco

venerdì 22 novembre 2013

80 minuti di Justin Townes Earle

Non fosse stato figlio di Steve Earle, una delle mie principali icone musicali, avrei probabilmente cominciato a seguire Justin Townes molto prima. Sì, lo ammetto, sono prevenuto nei confronti dei figli che seguono l'ambito artistico dei genitori. M'è sempre parsa una dinamica insincera, prevedibile e slegata da ogni reale urgenza creativa, giustificata solo dall'essere alternativa a cercarsi un lavoro vero fuori dalle influenza paterne (o materne). Non mi sembra, fino ad oggi, che questa convinzione mi abbia fatto perdere chissà che, ma ovviamente anche per la più solida delle regole esistono delle eccezioni.
Justin Townes Earle è una di queste, e anche bella grossa.
 
J.T., classe 1982 (parte del suo nome lo deve alla fraterna amicizia del padre con il grande folksinger Townes Van Zandt) ha cominciato a seguire il papà in tour non ancora maggiorenne, facendo esperienza attraverso qualche estemporanea ospitata sul palco dove si è esibito alla chitarra. Esordisce nel 2007 con l'EP Yuma,  al quale faranno seguito altri quattro full-lenght (l'ultimo dei quali recensito qui).
Dal punto di vista squisitamente artistico, attraverso i suoi lavori Earle jr si è guadagnato una solida reputazione negli ambienti che apprezzano la musica delle radici e lontana dal mainstream, sia essa cantautoriale, west-coast o legato alle mille sfumature del country. Uno dei suoi pezzi più emozionanti, They killed Joe Henry, riprende, laddove Pete Seeger l'aveva lasciata, la storia dell'operaio di fonderia John Henry e del suo simbolico martello, icona proletaria di un'altra epoca.
Insomma, un altro ragazzaccio da tenersi stretto stretto.
 
 

1. Harlem river blues
2. They killed John Henry
3. Yuma
4. Mama's eyes
5. The good life
6. Halfway to Jackson
7. Memphis in the rain
8. Unfortunately Anna
9. Ain't glad I'm leavin'
10. Baby's got a bad idea
11. One more night in Brooklin
12. Hard livin'
13. Am I that lonely tonight
14. Maria
15. Look the other way
16. Move over mama
17. Ain't waitin'
18. Black eyed Suzy
19. Midnight at the movies
20. Rogers park
21. Maybe baby (Buddy Holly cover)
22. Harlem river blues reprise

mercoledì 20 novembre 2013

I Puffi 2


Per quanto concerne la scelta dei film, con Stefano siamo entrati in una classica fase di transizione: non riusciamo ad abbandonare del tutto quelli più infantili e allo stesso tempo tentiamo di approdare a quelli dai contenuti un pelino più adulti (diciamo entro il divieto ai dodici anni). In questo caso abbiamo ceduto ad un classico prodotto per bambini in età prescolare, che probabilmente ricorderemo solo per questo fatto: potrebbe trattarsi per l'appunto dell'ultimo di un filone che stiamo abbandonando.
Anche se devo confessarvi che gli omini blu di Peyo, nella loro versione  in tecnica mista e computer grafica (già ammirate nella pellicola precedente) sono assolutamente deliziosi.
O almeno così sostiene Stefano.

lunedì 18 novembre 2013

AA/VV, Ghost brothers of Darkland County


Avevo lasciato John Mellencamp dopo la release di No better than this, un album che, col tempo, si è rivelato nella sua straordinaria bellezza e con un concerto, il primo del coguaro sull'italico suolo, che ha lasciato invece un pò di amaro in bocca.
Lo ritrovo a coronare un progetto al quale stava lavorando da più di dieci anni: Ghost brothers of darkland county, un musical di genere thriller scritto da Stephen King e prodotto da T-Bone Burnette, per il quale Mellencamp ha scritto la colonna sonora.
La particolarità sta nel fatto che l'artista dell'Indiana (con la complicità del produttore Burnette, suppongo), per la prima volta, si sia tirato da parte, regalando i suoi pezzi  ad altri artisti, tra i migliori interpreti del genere americana, sforzandosi di costruire moods che deviassero dal suo consolidato stile musicale per adattarsi alle caratteristiche degli ospiti.
L'album, che ha lo stesso titolo del musical, si avvale dunque del contributo di gente come Elvis Costello, Neko Case, Dave e Phil Alvin, Sheryll Crow, Ryan Bingham, Kris Kristofferson, Taj Mahal e Rosanne Cash, mentre, a fare da intermezzo tra una traccia e la successiva, si possono ascoltare alcuni brevi dialoghi dello spettacolo.

La qualità del lavoro non è costante, ma raggiunge picchi notevoli, quando il songwriting riesce a conciliarsi con l'interprete di turno, come nel caso dell'old time swing di That's me (Costello), che apre la parte musicale della tracklist. Il graditissimo ripescaggio di Neko Case è celebrato con uno degli estratti dal brand più mellecampiano dell'intera raccolta: l'ottima That's who I am. Ryan Bingham fa un pò Bob Dylan anni sessanta su Brotherly love mentre l'inconfondibile southern accent di Kristofferson impreziosisce How many days. Il delicato country folk Home again,  regalata a Sheryll Crown (coadiuvata dai fratelli Alvin e dalla leggenda Taj Mahal) è probabilmente il mio pezzo preferito. La voce di John Mellencamp, insieme a quella della singer Madeleine Jurkiewicz, arriva solo in conclusione, con la suggestiva Truth.

Il soundtrack di Ghost brothers of darkland è sicuramente un progetto interessante, non fosse altro per il numero e lo spessore degli artisti coinvolti nel progetto. John Mellencamp con l'età sarà anche diventato più sgorbutico, ma conferma di attraversare un periodo di grande ispirazione, che, sommato al viscerale amore per la musica delle origini, gli permette di sfornare dischi mai banali. Lo aspettiamo non senza impazienza alla prossima prova.

7,5/10

venerdì 15 novembre 2013

80 Minuti di Zac Brown Band

La compilation monografica di oggi apre un trittico di raccolte che mi stanno molto a cuore. Le playlist avranno tutte a tema quel pezzo di americana più legato alle tradizioni country-folk e ai loro mille rivoli espressivi. Inizio con la Zac Brown Band, combo che origina da un country sincero ed appassionato ma che poi non si pone steccati stilistici, dotato com'è di un eccellente songwriting nonchè di un songbook (dal 2004 cinque album, di cui i primi due autoprodotti) composto da pezzi che riescono a conciliare personalità e appeal radiofonico.
 
Ma quello che, nel tempo, ha permesso alla band di fare il salto di qualità e di posizionarsi in alto nelle preferenze degli amanti della musica vera, sono le esibizioni dal vivo, dove il gruppo capitanato da Zac Brown si inserisce perfettamente nel solco tracciato da band come i Grateful Dead, i Phish o i Wilco, formazioni  cioè che suonano per il piacere di farlo, e a questo scopo non si fanno troppi problemi ad accantonare il proprio repertorio per interpretare pezzi degli altri. Scorrendo le setlist della ZBB sono evidenti questi tributi, peraltro trasversali ai generi, attuati attraverso cover dei Metallica come di Van Morrison, dei Led Zeppelin come di Glen Miller, di James Taylor come  della Marshall Tucker Band.
O come della Charlie Daniels Band, la cui The devil went to Georgia è diventata da tempo un classico dei concerti del combo.
Ladies and gentleman, la Zac Brown Band:


1. Toes
2. Uncaged
3. Keep me in mind
4. No hurry
5. Chicken fried
6. Day that i die (feat. Amos Lee)
7. Whatever it is
8. Knee deep (feat. Jimmy Buffett)
9. The wind
10. Highway 20 ride
11. Quite your mind
12. Goodbye in her eyes
13. It's not ok
14. As she walking away (feat. Alan Jackson)
15. Jump right in
16. Sweet Annie
17. Whiskey's gone
18. Free
19. Colder weather
20. The devil went down to Georgia (cover della Charlie Daniels Band)

mercoledì 13 novembre 2013

The last Jam

A quasi vent'anni dalla sua uscita nelle edicole, con il numero 207, chiude Jam, rivista musicale che si occupa(va) di rock (termine come sempre da considerare in senso ampio) d'annata e dei grandi interpreti di questo sconfinato bacino musicale e culturale.
In tutta onestà non sono mai stato un lettore fedele della pubblicazione, l'ho sempre comprata occasionalmente, preferendogli in genere, quando volevo leggere qualcosa che andasse a pescare in quel contesto lì, il Buscadero o il Mucchio Extra (inarrivabile nella sua eccellenza).
Nonostante ciò, sarà per il mio approccio dinosaurico al rock, ho sempre guardato alla rivista con sincero rispetto, in cuor mio felice che nelle edicole (e quindi nell'interesse di qualcuno) esistesse un giornale che si occupasse di quel target a me tanto caro.

Mi rendo conto che oggi, tra crisi globale, difficoltà ad intercettare risorse dalla pubblicità, sovraffollamento del segmento specifico old style (le corazzate Rolling Stone e Classic Rock, le piccole ma appassionate Classix e Classix Metal nonchè le recenti conversioni tematiche di progetti storici come Blow up) e contrazione del mercato, resistere con una rivista di questo tipo sia diventato ai limiti dell'impossibile. 
Infatti Jam conclude la sua storia nelle edicole. 
Nell'editoriale del direttore si conferma invece la continuità della versione on-line della rivista.

Per quello che vale ho ritenuto di salutare questa avventura editoriale acquistando l'ultimo numero, malinconico ma orgogliosamente celebrativo, rappresentato in copertina da un famoso scatto di Jim Morrison e dal richiamo alla celeberrima The End dei suoi Doors.

Goodbye and hello.


lunedì 11 novembre 2013

The Del Mc Coury Band, The streets of Baltimore


La Del McCoury Band è sicuramente il gruppo che più di altri, negli anni, si è costruito un solido credito di coerenza e credibilità nell'ambito del true blugrass. Pur avendo cambiato ragione sociale più volte negli anni la sua origine è infatti collocabile alla fine dei sessanta. Durante tutto questo orizzonte temporale la formazione originale ha inglobato parenti dei membri originari (come i figli di Del McCoury), ponendo così le basi per una continuità artistica che risponde agli antichi criteri di gestione familiari delle orchestre.
Punto esclamativo della carriera artistica del gruppo l'album The mountain, registrato nel 1999 insieme a Steve Earle.

Pur essendo, come detto, il canovaccio principale rispondente al genere blugrass (quindi alla larga chi non sopporta banjo,violino, mandolino e ingombranti armonie vocali) la DelMcCoury si carica sulle spalle tutta una tradizione rurale spingendosi anche oltre, quando ricrea atmosfere old time che richiamano, contaminandole, appalachian music, ragtime, dixiland e canti religiosi.

Big blue raindrops, Amnesia, Butler brothers e I'd do love to do something sono gli episodi migliori nel prevalente stile blugrass dell'album, i pezzi lenti come I need more time e I wanna go where you go riescono ad inserire una marcia in più, ma anche la title-track, sporcata di rockabilly e Once more with feelings sostenuta da un pattern pianistico in stile honkytonk si smarcano dalla media. Chiude la tracklist un'interessante versione di Only You dei Platters.

La Carter Family, Bill Monroe, Flatt & Scruggs, Doc watson e Jimmy Martin possono continuare a riposare serenamente. La traditional music americana è in ottime mani.

7/10

mercoledì 6 novembre 2013

Flight


Il genere cinematografico sui disastri aerei ha avuto un suo momento di massima fortuna nel corso degli anni settanta, poi nell'ottanta è arrivata la strepitosa parodia del trio Zucker-Abrahms-Zucker e quella fase è stata irrispettosamente e definitivamente chiusa. A seguire, occasionalmente, qualcuno c'ha riprovato a cimentarsi con questo genere, incrociandolo magari con temi legati al terrorismo, all'avventura adrenalinica o alla ricostruzione di catastrofi realmente avvenute, ma, diciamo così, il filone non ha mai avuto il propellente necessario per ripartire. 
Credo resti un caso isolato anche questo Flight, film dell'anno scorso che punta i riflettori su Whip Whitaker (un ottimo Denzel Washington), comandante di una compagnia aerea di linea, ex-militare, dedito all'uso costante e massiccio di alcol e cocaina. Un poco di buono, quindi? Sì, ma anche no. Infatti, nonostante nel suo corpo scorra più vodka che sangue, al momento opportuno, cioè quando l'aereo che sta pilotando subisce una grave avaria, grazie ad una manovra incredibile, riesce a portare in salvo quasi tutti i passeggeri trasportati. A seguito di questo però, viene ovviamente approntato un processo nel quale la sua condotta morale rischia di emergere in tutta la sua gravità.

La sceneggiatura (affidata alle mani esperte di Robert Zemeckis) gioca in maniera scaltra con gli eccessi di Whip. L'esaltazione di una fase, quando tutto è uno sballo e per riprendersi da una sbronza colossale,con l'aiuto del tuo spacciatore personale (il sempre convincente John Goodman: una sorta di personal trainer della droga), bastano due tiri di coca e sei come nuovo, è compensata dalla storia parallela di una giovane tossica (la meravigliosa Keilly Reilly) che fa quello che le giovani tossiche fanno per procurarsi la roba, nonochè dalla parabola discendente dello stesso comandante.

Ad impreziosire la storia una colonna sonora da big guns, a partire da Feelin alright che suggella la prima pippata di Whitaker, passando per Under the bridgde dei RHCP, Sweet Jane dei Velvet Undergound, Symphaty for the devil che introduce il personaggio di Goodman, Gimme shelter, What's goin on e via di questo passo. Una fantastica mixtape dei settanta a servizio di un film che non cambierà la storia del cinema ma che a tratti risulta avvincente e appassionante. 

lunedì 4 novembre 2013

Motorhead, Aftershock


Adesso se ne parla solo in termini mitologici, ma diciamo la verità: ad un certo punto i Ramones avevano rotto i coglioni. Che non è che avessero pubblicato sempre e solo capolavori come il trittico iniziale. Allo stesso modo ci mettono duramente alla prova gli AC/DC, che si differenziano con il gruppo in chiodo, jeans e All Star per il fatto di essere sopravvissuti, ma che alla fine ruotano sempre intorno ai classici di trent'anni fa e allo stesso identico modello di canzone. Non c'è niente da fare, quando il brand musicale di una band è così marcato e inconfondibile da entrare nella storia, diventa croce e delizia, salvezza e condanna dei propri inventori. In questa dinamica ci sono dentro a pieno titolo anche Lemmy Kilmster e i suoi Motorhead (che peraltro ai Ramones hanno dedicato un pezzo) che dopo Iron Fist, dell'ottantadue, a livello di sound avrebbero potuto anche aver detto tutto quello che avevano da dire, ma che sono invece andati avanti per altri trent'anni e ventuno album complessivi, oscillando sempre tra i generi dai quali deriva lo stile del combo: il punk, l'heavy metal, il blues e il rock venato di boogie.

Vorrei dirvi che Aftershock devia imprevedibilmente da questo schema collaudato, ma sappiamo entrambi che sarebbe una menzogna. Aftershock è completamente calato nel piombo fuso dello schema Motorhead, e quindi l'unica cosa da chiedersi è se il dottor Kilmster sia riuscito a creare pallottole adeguate alla sua fama da killer del rock and roll. La risposta è positiva, anche se non siamo certo di fronte ad un nuovo Ace of spades (e probabilmente non sarebbe nemmeno lecito aspettarselo). Però Heartbreaker inaugura bene la tracklist mentre poco più avanti, la tetralogia aperta e chiusa dai blues lenti Lost woman blues e Dust and glass, che racchiudono le badasses End of time e Do you believe, dà la percezione di essere al meglio della raccolta, e così probabilmente è, a patto però di aggiungerci Silence when you speak to me (dall'incipit in odore di Volbeat, in una sorta di cortocircuito tra ispiratori e ispirati), che, ha voglia Lemmy ad alzare il dito medio in risposta a quanti tentino a tutti i costi di associare alcuni temi del disco (il titolo, Heartbreaker) al suo ultimo, cagionevole, stato di salute: con quel "remember me" alla base del ritornello ha proprio il gusto agrodolce del lascito testamentario.

Insomma gente, è un nuovo disco dei Motorhead. Adesso magari non tratterrete sbuffate ed alzate di sopraccigli, ma è certo che domani questa merda vi mancherà.

7

domenica 3 novembre 2013

Chronicles 36

Mi sono nascosto dietro le siepi, cercando di rimanere nelle zone non raggiunte dalla luce dei lampioni. Mi sono appiattito contro i muri, le ragnatele che si infrangevano sulla testa. Li ho spiati mentre andavano di casa in casa con il terrore di essere visto. Loro correvano e io dovevo stargli dietro senza fare movimenti bruschi e senza farmi notare. Un paio di volte si sono girati dalla mia parte e ho fatto appena in tempo a riparare dietro un angolo azzerando il respiro e amplificando l'udito per capire se fossi stato scoperto.

Per la miseria, che fatica seguire di nascosto mio figlio che per la prima volta esce in strada senza di noi, insieme ai suoi amici, a fare dolcetto-scherzetto ad Halloween dopo averci intimato di non seguirlo!

venerdì 1 novembre 2013

MFT, ottobre 2013

MUSICA



La lista di ascolti del mese è presto fatta:


Hank III, Brothers of 4 x 4.


No, seriamente. A volte (ok, spesso) scasso la uallera con Hank 3, ma tutto sommato non mi prendo sul serio, faccio finta di avere ancora diciassette anni e di aspettare con ansia il giorno dell'uscita del disco della mia band  preferita, nonostante abbia imparato da tempo che, salvo sporadiche eccezioni, è alle opere e non agli artisti che sarebbe più saggio affezionarsi. Fate lo stesso anche voi: portate pazienza e non prendetemi troppo sul serio. 

In realtà la buona notizia è che la lista di questo mese, dopo tanti tentativi andati a vuoto, è una delle più eterogenee dell'anno. 



Austin LucasStay Reckless

VolbeatGuitar gangster and cadillac blood
Arctic Monkeys, AM

Hank III, A fiendish threat
Those Poor Bastards, Satan is watching
Pearl Jam, Lighting bolt
Jonathan Wilson, Fanfare
Calibro 35, Traditori di tutti
Motorhead, Aftershock
Nine Inch Nails, Hesitation marks
Omar Soulyman, Wenu wenu
The Bastard Suns, Here comes the suns
David Allen Coe, The first 10 years
Harem Scarem, Wild swings
The Ricky C Quartet,omonimo
Massimo Volume, Aspettando i barbari


VISIONI


La sesta stagione di Sons of Anarchy sta entrando nel vivo mentre la seconda di Homeland si sta rivelando ansiogena e tesa oltre ogni più rosea aspettativa.