Miles Davis, Kind of Blue, 1959
Merda. Come si recensice un disco jazz? Come si descrivono le note che escono dalle casse dello stereo, le figure geometrice formate dalla coesione degli strumenti, le mille sfumature del genere? Figuriamoci, già annaspo con le definizioni per le canzonette. Tra l'altro qui sono di fronte ad un masterpiece assoluto. Non si può fare, non ne sono capace. Però non posso nemmeno deletare dalla lista dei migliori della vita Kind of blue per manifesta incapacità. Vabbeh, come viene viene. Questa, più che una recensione classica sarà una serie di considerazioni, impressioni, di ricordi, di emozioni e percezioni legate al Disco e al suo leggendario autore, Miles Davis.
Provo a partire dall'inizio. Mi ha sempre affascinato la figura di Miles. Ancor prima ancora di aver ascoltato una sola nota uscire dalla sua tromba, intendo. Non lo so, lo vedevo raffigurato in immagini d'epoca e mi sembrava un dio. Bello, fiero e potente, mai un'incertezza nello sguardo. Poi i racconti di qualche amico su di lui, le sue imprese, le sue bravate, il suo orgoglio, la sua superiorità.
Bene, sono ancora a digiuno della sua musica quando mi immergo nella sua autobiografia (minimum fax, 500 pagine, consigliata) e la divoro. Prima ancora di terminarla però compro A kind of blue.
Ora, io credo di essere una delle persone al mondo meno predisposte al jazz, alla musica non cantata in generale. Al netto di qualche autorevole eccezione sono fatto per i brani dalla struttura classica " strofa ritornello ponte ritornello", e possibilmente dotati di una buona cantabilità, per cui la sola idea di mettermi lì con una roba pesa mi provocava psoriasi diffusa su tutto il corpo.
Con A kind of blue invece...Beh è come aver avuto come ideale di donna solo quello di bionde maggiorate, e innamorarsi, di colpo e perdutamente di un'esile mora.
Un disco fantastico, realmente magnetico, ipnotico. Non cosa sia che ti prende e non ti molla in queste note, se la scala musicale modale adottata dal gruppo, la successione degli accordi o il mood, cazzo, davvero non lo so. Ma ricordo chiaramente le sere d'inverno in cui tornavo tardi dal lavoro a turni e restavo sotto casa ad ascoltarlo perchè proprio non ce la facevo a spegnere l'autoradio. O le volte in cui, ascoltando la traccia numero uno, So what, sono caduto in una sorta di stato catatonico, perso dietro al riff iniziale, smarrito e poi riacciuffato non si sa come per tutti gli oltre nove minuti di durata della composizione, da parte della band.
Oh, la mia condizione era indotta solo dalla musica, senza l'ausilio di sostanze stupefacenti, è bene sottolinearlo.
Merito del genio di Davis e della sua tromba, certo. Ma è difficile prescindere dal personnel che si muoveva al suo fianco, a partire da John Coltrane al sax tenore: monumentale, colossale, eroico. Per passare ad un altro genio del sax alto, Julian "Cannonball" Adderley. Poi Bill Evans al piano, Paul Chambers al basso, Jimmy Cobb alla batteria e Wynton Kelly al piano.
Solo cinque pezzi nell'edizione originale, oltre alla già citata open track, Freddie Freeloader, Blue in green, All blues e Flamenco Sketches. Solo cinque composizioni ma tanta, tanta roba.
Una roba che rasserena, riappacifica tutti i conflitti interiori, rimette al mondo. Un disco che migliora le persone. Fa progredire le civiltà.
A kind of blue detiene per me anche un altro record. Oltre ad averne acquistato l'edizione in vinile dopo quella in cd, è senza dubbio il ciddì più regalato in assoluto nella mia esistenza. Ricordo che di recente una grossa catena di elettronica l'aveva messo in vendita ad una cifra irrispettosa, e io, beh, credo di averne prese 4-5 copie, che nel frattempo ho piazzato tutte agli amici.
C'è anche da dire che, dopo aver mandato praticamente a memoria quest'opera superiore, pensavo di essere "culturalmente" pronto per il jazz, e perciò ho provato a buttarmi su decine di titoli, incredulo e estasiato per aver trovato dopo tanti anni un nuovo pozzo di San Patrizio da saccheggiare.
Con mio sommo dispiacere (vuoi mettere vendersi come appassionato e conoscitore di jazz invece che degli Spands?!?), devo invece riconoscere che, tolto qualche altro esito positivo grazie a gente come Charlie Parker, John Coltrane, Charle Mingus, Duke Ellington e una manciata di lavori, fondamentali all'umanità al pari della pennicillina, quali A love Supreme, My favorite things, Mingus Ah-Um, April in Paris, e ulteriori pilastri della musica di Miles, come Birth of the cool, In a silent way, Bitches Brew e On the corner, il jazz non è riuscito a fare breccia definitiva nel mio cuore di buzzurro musicale.
Non ho rinunciato definitivamente, così come non ho rinunciato a capire Frank Zappa, ma per ora me ne sono fatto una ragione.
So già cosa direbbe a proposito Miles, seduto serafico sul suo sgabello a lucidare amorevolmente la tromba. Non alzerebbe nemmeno lo sguardo, si limiterebbe a muovere impercettibilmente le labbra, sentenziando: -"Take it easy man, less is more"-.