Nel mettere assieme i pensieri per organizzare mentalmente la recensione del nuovo album degli AC/DC sono due i concetti che mi frullavano in testa, e nessuno dei due concernente la musica contenuta dentro questo Power up (aka PWR/UP).
Mi stupisce quasi fino al fastidio (per quanto ci si possa infastidire alla mia età per faccende di rock and roll, si intende) la pressochè totale accondiscendenza con la quale chiunque, tra critica e appassionati, accolga negli ultimi anni ogni nuovo lavoro degli australiani. Si tratta di una benevolenza che nessuno, tra i "competitor" che per storia, impatto culturale e tenacia, rientrano nel benchmark degli AC/DC, arrivano a godere. Pensiamo solo alla scientifica operazione di conteggio dei peli sul culo con relative ondate di indignazione per i nuovi (a detta di chi scrive validi) lavori di Iron Maiden (Book of souls) e Metallica (Hardwired...to self-destruct) o ancora alle reazioni con mignolo alzato di fronte a quelli che erano i nuovi lavori di Lemmy coi Motorhead (che per insistenza stilistica potevano essere paragonati alla band di Angus Young), ed avremmo un campione significativo a dimostrare come nel rock and roll saranno anche tutti uguali ma gli AC/DC sono più uguali degli altri, nonostante non abbiano sostanzialmente mai tentato strade diverse dal solito boogie-hard-rock e il leader del gruppo, a sessantacinque anni suonati, per i live act, si vesta ancora come la caricatura di uno scolaretto.
Ma che ormai la band sia consapevole di essere diventata un brand, più che un gruppo musicale (e qui arrivo al secondo concetto), e che il suo monicker sia assimilabile a marchi pop-iconografici come la M di McDonald, la conchiglia della Shell o la mela della Apple, lo dimostra la scelta fatta negli ultimi vent'anni per le immagini di copertina, laddove dal 2000 (anno di uscita di Stiff upper lip, ultimo con un immagine artistica), tutti i lavori di questo ultimo ventennio (Black ice, Rock or bust, PWR/UP) - complice anche l'avvento dei Compact Disc e poi quello delle iconcine delle playlist Spotify - hanno orientato l'Azienda-ACDC ad un business plan di estrema sostanza ed efficacia, con il nome/brand a riempire tutto lo spazio disponibile sulla copertina, come se bastasse questo a fare del contenuto musicale una garanzia, analogamente al tuo "Dash di sempre".
Sul contenuto dell'album cosa posso dire? Due-tre pezzi con il piglio ruffiano che serve (Shot in the dark; Kick you when you're down; Demon fire), ma che ci dimenticheremo subito, esattamente com'è successo per i brani dei due dischi che hanno preceduto questo. Personalmente sono sobbalzato solo ascoltando Through the mist of time, il mio preferito, l'unico brano che si allontana dal solito giro armonico e che rimanda, incredibilmente, all'elegante pop rock dei Van Halen (con Sammy Hagar) di 5150.
Chioso solo affermando che la mia severità di giudizio viene dall'affetto che ho per gli AC/DC. Non serve, credo, ribadire quanto ami questa band, basta farsi un giro nel blog. Aggiungo che sono autenticamente felice che Brian Johnson (uno dei personaggi in assoluto più simpatici del music business) abbia superato i suoi gravi problemi all'udito che lo portarono ad abbandonare l'ultimo tour (sostituito da un Axl Rose alla Ironside, una scelta che ho detestato), tuttavia, sono convinto che se questo stesso album fosse stato rilasciato venti o trenta anni fa avrebbe ricevuto un'accoglienza molto più tiepida di quanto accade oggi. Eppure band e brani, gira e rigira, sono pressochè gli stessi, e anzi, forse, pensando a Stiff upper lip o a The razors edge , pure peggiori.
E dunque, necessariamente, ad essere cambiati siamo noi e il contesto critico, perchè, di certo, gli AC/DC sono sempre gli stessi.
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