C'è poco da fare, non fosse stato quel capolavoro di brutale e condivisa autoanalisi del documentario The story of Anvil, il gruppo canadese sarebbe rimasto nell'oblio in cui era precipitato, pur continuando, sostanzialmente, a rilasciare album.
Quel documentario invece ce li ha fatti amare, così come si ama un amico che continua a provarci no matter what e ha fatto riscoprire a molti il piacere di andare ai loro concerti.
E' nata insomma una profonda empatia anche con chi, è il mio caso, non aveva mai incluso gli Anvil nel proprio radar.
Legal at last (il riferimento è alla marijuana che il governo canadese ha legalizzato - entro certi termini - dal 2018) è il diciannovesimo album in studio della band in una discografia che, dal 1981, si dipana con regolarità in un orizzonte temporale di quarant'anni.
La formazione attuale è un trio, composto, oltre che dai leader Steve "Lips" Kudlow (voce e chitarre) e Robb "Robbo" Reiner (batteria) dal basso (ruolo che cambia quasi ad ogni disco/tour) di Chris Robertson.
L'album è il solito divertente compendio di musica hard & heavy di stampo classico, con brani in tipico stile Anvil, come l'opener che riprende il titolo del lavoro, impreziosita da coretti country&western, assieme a tracce che, in un continuo rimando tra la band e le altre più importanti formazioni coetanee, riprendono atmosfere alla AC/DC (Nabbed in Nebraska); Accept (I'm alive) o contesti doom (Gasoline).
Chiude un altro mid tempo di stampo doom: Said and done, che bene riassume il senso del disco. Tutto, nella proposta della band è già stato detto e fatto, ma ciò nonostante fa piacere riascoltarlo.
In particolar modo dagli Anvil.
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